Siracusa. Al Teatro Greco delirio e grazia per Crisòtemi di Isabella Ragonese e Teho Teardo

Un testo di Ghiannis Ritsos chiude gli spettacoli di parole e musica di “Per voci sole” prima della serata evento del 30 agosto.

Isabella Ragonese

 

In-definito, in-servibile, in-consistente, in-visibile, in-significante: parole tassello di un testo su ciò che non si offre nella sua materia palpabile e definita.Un testo su un’esistenza laterale, su una vita periferica: coglierla, quella vita, nel momento in-deciso tra la luce e il buio, nel tramonto del senno, tra la desolazione e l’oblio, quando la felicità è la truffa di un ricordo e la libertà sta nell’ala di una farfalla nera con macchioline arancioni o in un delirante viceversa cromatico. Il testo è “Crisòtemi” e l’autore è Ghiannis Ritsos. Se l’autore è Ghiannis Ritsos la labilità si fa singulto del rigo di prosa, tessitura di parole in negativo e intrico di punteggiatura, partitura di colori (una tavolozza di blu, rosso, verde, giallo, bianco, rosa) e suoni: il galoppo dei cavalli, il fruscio degli alberi e delle ali, il frinire delle cicale “folli timpaniste nane”, il batacchio di campane, le urla delle serve, i bicchieri rotti e il silenzio. “Crisòtemi” è un testo difficile e sofisticato, un manifesto politico – Ritsos lo scrisse negli anni della prigonia e dell’isolamento tra il 1967 e il 1970- e un sogno fatto poesia, palpabile e impalpabile al tempo stesso, materico come il delirio e incorporeo come la grazia.

Delirio e grazia che ieri sera al Teatro Greco di Siracusa hanno avuto la voce e il corpo di Isabella Ragonese (nelle foto) e le musiche di Teho Teardo.  Lo spettacolo diventa la storia di un personaggio e della persona che lo interpreta. Crisòtemi è l’incolore sorella dei vendicatori Elettra e Oreste e della sacrifica Ifigenia. La persona è Isabella Ragonese, attrice tra le più intense e versatili del cinema e del teatro italiani. Le accomuna la sfuggevolezza. Crisòtemi è il mito dell’inapparenza, Ragonese ha una carriera importante (esordisce con Crialese, vince un Nastro d’argento con Luchetti, scrive e lavora anche  per il teatro e la televisione) ma sembra percorrere in punta di piedi i red carpet. Due donne falsamente eteree. Crisòtemi, relegata da Omero ed Euripide a poco più di un nome e da Sofocle a specchio opaco di Elettra, deve attendere prima il disincanto lirico ed etico di Ghiannis Ritsos per avere un fiume carsico di parole da dire, poi la bellezza raffinata e il talento rapace di Isabella Ragonese per riempire di sé il dramma. Crisòtemi è il mito della separatezza dalla violenza, dall’ingombro di una famiglia cruenta, dalla morte. Ritsos getta sul tavolo della Storia la carta della disequazione tra vita e disimpegno, lo fa con gesto polemico. Crisòtemi è una donna avanti con gli anni che fa i conti con la solitudine e la voglia di libertà. Una donna preda dei ricordi, forse dei rimorsi, di certo dei sogni di felicità, di certo del perdono.  Ecco il valore politico del testo di Ritsos, che completa il discorso di Aiace, come atto d’accusa contro chi resta sospeso nel dubbio “quale sarà stato il suo posto giusto (e il nostro) questo, o l’altro tra le foglie del sonno, il cadere dall’alto o il volar via?”. Crisòtemi è un’imperdonabile bambina, un’immobile bambina che ruota al dito l’anello con l’occhio caduto dalla bambola di Elettra. Come fare a non perdonarla? Ritsos lancia una chiara accusa ma elimina la perentorietà dal linguaggio, rendendo empatico il personaggio e traducendo l’invisibilità del mito classico nell’onirismo della traduzione contemporanea. Quello che, ieri sera, è accaduto al Teatro Greco di Siracusa è a sua volta una traduzione: del testo di Ritsos.

 

Grazie alla caratterizzazione ragonesiana di Crisòtemi il pubblico ha assistito a una danza della mente: ora delirante ora lucida, ora arrabbiata ora trasognata ora persino ironica. La marginale Crisòtemi vestita della figura esile, bianca, delicata di Isabella Ragonese è diventata una sorta di femme fatale mai nata, abbandonata nella poltrona di vimini a pavone (lei sacerdotessa dell’invisibilità) o in piedi davanti a uno dei due leggii in scena: poco più che orpelli di palco per Ragonese che ha recitato leggendo, con una performance di perfetto mestiere paragonabile solo a quella di Luigi Lo Cascio in “Aiace”. Isabella Ragonese ha tradotto l’inapparenza in apparenza grazie a una prova d’attore senza tentennamenti, modulata su tutti i ritmi possibili, recitando con tutto il corpo, facendo del languore stupore e raffica. Ragonese si è presa la scena, tutta.

 

 

Fin dall’alto della cavea quando appare come una felliniana Giulietta degli spiriti con l’ombrello aperto e il bianco del velo (una nuvola? l’evanescenza del sogno?) e del vestito di scena: il pantalone come tunica è vezzo di contemporaneità o cifra dell’incertezza di colei che ha avuto “mai un riverbero di sensazioni o decisioni”? Ragonese, diventata Crisòtemi, ha fatto del nome del personaggio (Crysos vuol dire oro) un luminoso destino teatrale. Anche quando esce di scena Ragonese/Crisòtemi seduce gli sguardi del pubblico che rimangono incollati a quell’eterea figura che se ne va, inondata di luce blu.

E di musica. A Teho Teardo (nella foto) il compito per lui facilissimo di tradurre la sonorità del testo di Ritsos in colonna sonora. Facilissimo perché “Crisòtemi” di Ritsos è già uno spartito, facilissimo perché Teardo  (accompagnato dalle inappuntabili violoncelliste Giovanna Famulari e Laura Bisceglie: con loro all’attivo già la collaborazione in Grief Is The Thing With Feathers dal dramma di Edna Walsh di cui sembra riprendere le atmosfere fiabesche e notturne) compositore pluripremiato e in-stancabile -qui la preposizione dice l’impeto- sa come pochi creare stanze sonore dove pure gli spifferi diventano note.

La scommessa e la curiosità di chi ha letto il testo di Ritsos erano quelle della traduzione musicale. Teho Teardo ha fatto dei sintetizzatori, della bacchette della batteria elettronica, del mix di suoni registrati e dal vivo, della “sua” campana, dei violoncelli e della chitarra elettrica un’intera orchestra, fino all’assolo di punk rock con cui si è chiuso lo spettacolo a dimostrazione che il rock si addice al teatro antico. Quando a suonarlo sono artisti come quelli ospitati in questa stagione. Come Teardo che, fedele alla sua cifra autoriale fa incontrare il classicismo degli archi e l’elettronica (presenti nello spettacolo gli echi delle sue colonne sonore per Salvatores e Sorrentino o la formazione dalla musica post-industriale all’incontro con Blixa Bargeld). Se si potesse isolare la musica di Teardo, verrebbe fuori un’altra traduzione di “Crisòtemi”: dark, minimal. Apparente, verrebbe da dire. Ed è forse qui la bellezza dello spettacolo . La sperimentazione, nel ritmo di musica e di interpretazione, di una voce nuova per un personaggio antico, spostandosi ancora più in là di chi l’ha scritto, di chi lo ha già fatto emergere dall’anonimato.

 

Un successo, sottolineato da lunghissimi e felici applausi del pubblico, che può vantare pure di una vera cura registica, stavolta. Fabrizio Arcuri (nella foto insieme a Ragonese e Teardo) ha creato una regia discreta ma di forte impatto simbolico, anche per la psichedelia delle luci in gioco con la musica. Non è sfuggito un dettaglio che fa regia. A un certo punto, mentre Ragonesi/Crisòtemi accenna allo specchio nel fondo della cavea, nello stesso punto da cui è arrivata, si scorge un’altra Crisòtemi: avanza, chiude l’ombrello e le porte. E ci si avvia alla fine del delirio aggraziato di Crisòtemi. La cui tradizione e traduzione, mentre il teatro si svuota, sta nell’eco di una frase messale in bocca da Ritsos “solo il bello credo che possa reggere di fronte all’inesplicabile vanità del tutto, senza speranza di giustizia o di redenzione”.

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Daniela Sessa

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