“Rivolte”. Da Avola ai Boia chi molla di Reggio Calabria: l’epopea del sudismo nazionalista

Il nuovo saggio di Alessandro Amorese per Eclettica sui moti di popolo nel Mezzogiorno e uno sguardo sul nostro tempo

La copertina di “Rivolte”

“Avendo imparato il significato della disoccupazione, 

il meridionale oggi non si rassegna più alle condizioni di

 vita tradizionali. E’ impaziente.

Ha visto che cambiare è possibile, e vuole che

questo cambiamento avvenga nel corso della sua vita.

Non sopporta che i suoi figli vivano senza speranza,

e concede al governo solo un tempo limitato 

per dimostrare che le istituzioni democratiche 

sono in grado di fornir lavoro alla gente”.

Herbert Kubly, Life, 1961

Quando il popolo si desta 

Dio si mette alla sua testa, 

la sua folgore gli dà“. 

Goffredo Mameli

INTRODUZIONE

Violente, cruente, con conseguenze drammatiche, ma spontanee e popolari. Quindi dimenticate da sociologi, analisti, storici. Oppure liquidate, oggi e allora, come bieco e reazionario municipalismo, ribellioni ‘sanfediste’ senza cultura e senza idee, strumentalizzate dalla destra. Un problema di ordine pubblico, magari con (mai provate) infiltrazioni della malavita. Insurrezioni per il ‘pennacchio’, per il gonfalone. Non potevano che essere disprezzate dal mainstream di quegli anni e condannate da buona parte della classe politica, proprio perché Rivolte indiagnosticabili, non incanalabili negli schemi marxisti, di classe. Se si eccettua la lotta dei braccianti di Avola, le insurrezioni oggetto di questo libro sono decisamente interclassiste, imprevedibili nella loro forza, così diverse dalle piazze del movimento studentesco, dai colori del ’68, dalle prime avvisaglie di quelli che verranno poi chiamati come ‘Anni di piombo’. Ma anche i braccianti siciliani non alzano i cartelli di Mao o di Lenin, continuano fino alle estreme conseguenze la propria giornata di lotta, nonostante il tentativo di alcuni sindacalisti di portarli via da quella Statale, proprio dopo aver fiutato il peggio. Il piombo c’è: quello di una gestione pessima di quei momenti, di quei giorni, da parte delle forze dell’ordine. Sono due i questori che vengono ‘messi a disposizione’, capri espiatori ad Avola e L’Aquila, la prima e l’ultima sommossa che trattiamo in questo volume. Moti nazionalpopolari che sono anche la conseguenza della ritardata attuazione dell’ente Regione e soprattutto dei rinvii continui nell’individuazione dei capoluoghi di Abruzzo e Calabria. Quando la scelta diventa irrimandabile esplodono anni di divisioni, di giochi di potere, di dualismi tutti interni alla Democrazia Cristiana, il Partito-Stato che aveva alimentato tanto le tensioni campanilistiche quanto il sistema clientelare che proprio le Rivolte rischiano di far saltare. Un rischio non calcolato, così come quello di vedere affiorare, nel Meridione, di zone dove la destra politica avrebbe potuto non solo cavalcare la protesta (cosa che in parte è avvenuta) ma diventare un’alternativa di governo. Fattori che hanno fatto gridare al colpo di stato, che sarebbe partito dal Sud e arrivato a Roma, magari con qualche ritardo nei treni o intoppi nelle autostrade; che hanno fatto sì che questi fenomeni di piazza, di popolo e non di classe, siano stati repressi, spesso duramente, anche su richiesta di quel Partito (Comunista) che in altre occasioni aveva tentato di metter il cappello sulle proteste. Che differenza di approccio tra Battipaglia e Reggio Calabria! Ma le caratteristiche principali delle due Rivolte sono oggettivamente comuni o simili: Battipaglia dura pochi giorni rispetto a Reggio e il Pci non fa in tempo a capire (lo ammettono però i dirigenti campani nelle relazioni interne) come in quella piazza ed in quelle strade fosse stato superato dai cittadini, il palco di partiti e sindacati distrutto. L’obiettivo è rappresentato dalla compagine di governo e dalle formazioni diventate più regionaliste e d’ordine ‘a intermittenza’ come il Pci, nel mirino c’è la partitocrazia e lo Stato. Non per niente in queste Rivolte, fin dai primi tumulti, non si contano gli assalti alle sedi di quasi tutti i partiti e di enti statali, per non parlare delle Questure, delle Prefetture, dei Municipi. I palazzi comunali o provinciali occupati per rivendicare il gonfalone, portato in alto, in testa ai cortei. Sono in taluni casi Rivolte ‘benedette’ perché non solo la chiesa locale non le condanna ma in qualche modo le supporta; si tratta di un connotato tipicamente meridionale, insieme a quello di un localismo presente nel ceto politico di tutte le fazioni. Anche i sindacati vengono scavalcati, assenti o in secondo piano, rispetto ai Comitati cittadini, i veri soggetti propulsori, quando anch’essi non siano costretti ad ammettere il travolgimento popolare, come a Pescara. Tutto il contrario di quello che accadeva nel centro nord, con i cortei operai, l’autunno caldo, la nascita della strategia della tensione, le rivendicazioni delle masse lavoratrici e studentesche, la recrudescenza dell’antifascismo. Non possono, insomma, essere comprese nei cosiddetti ‘movimenti’, nella terminologia adottata da buona parte di sociologi e storici contemporanei. Questo non c’è, a Battipaglia come all’Aquila, a Reggio Calabria come a Pescara, anzi, la destra politica ed extraparlamentare non solo non è isolata e messa all’angolo, ma è protagonista, in prima linea, nonostante le titubanze dei vertici del Msi. Ha raccolto anche la coerenza nella battaglia contro le Regioni, illusoria rappresentazione di un futuro migliore offerta nei decenni da Dc e alleati (e dal Pci) alle genti del Mezzogiorno. Quelle tessere bruciate, quei quotidiani stracciati, quei manichini impiccati con i nomi dei potenti calabresi che si erano divisi, a cena, a Roma, la Calabria, non potevano essere digeriti né dal centrosinistra al potere né dalla sinistra comunista e già egemone nell’informazione. Le Rivolte, sintomi di una antipolitica ante litteram, andavano stroncate, mediaticamente, culturalmente, represse nelle piazze e nei tribunali. Emblematica la vignetta sui fatti di Reggio in una copertina del settimanale <<Candido>>: “La rivoluzione è mia e guai a chi me la tocca”, grida un militante comunista con pugno chiuso e falce e martello. Quindi al Pci non resta altro che invocare l’intervento militare, minacciando un intervento dei propri militanti dalle altre parti d’Italia: arriveranno i carri armati a ‘liberare’ i rioni più ribelli, i quartieri popolari di Reggio dove aprivano le sezioni missine e se ne scioglievano altre; andrà peggio a chi proverà a calare su Reggio per festeggiare l’approvazione dello Statuto regionale, non sobriamente, ma con le bandiere, rosse come quei ‘baroni’ contestati per mesi nelle strade della città dello stretto. In tutto ciò non va mai dimenticato il contesto sociale, che non può passare in second’ordine anche quando la Rivolta scaturisce da fatti calcistici o, appunto, dalla contesa del capoluogo: siamo in quel Meridione povero, pieno di contraddizioni, che anche quando trova, in alcune zone, periodi di sviluppo (Caserta o  Battipaglia) rischia di tornare indietro di anni. Si aggiunga il dato dell’emigrazione, di una crescita urbanistica fuori controllo, senza una logica e di promesse di investimenti industriali mai concretizzatisi. Altro che folclore, altro che ‘pennacchio spagnolesco’, la peculiarità che accomuna queste Rivolte è proprio un insieme di identità cittadina e rabbia popolare, di orgoglio e ‘sudismo nazionalista’ (si veda la prefazione di Angelo Mellone) e malessere sociale. Un mix esplosivo che se da una parte si è cercato di sminuire, dall’altra si è addirittura affermato come esistesse un nesso tra il degrado sociale dei decenni successivi e del dilagare della criminalità organizzata con la Rivolta di Reggio Calabria. Interpretazioni superficiali e surreali allo stesso tempo. Crediamo che la visione intellettualistica (snob) che non vuole e forse non può capire il substrato di queste Rivolte, di questa Italia profonda, esistente ancora oggi, abbia fallito e che questo andasse una vola per tutte scritto e ribadito. E questa identità, questo gonfalone all’attacco, non può essere considerato retroguardia culturale, ma va giudicato positivamente, oggi come allora, quando le bandiere avevano due colori: il rosso di una utopia sanguinaria, il bianco della partitocrazia che nel Meridione era quello della resa. Oggi si sono fusi e sono diventati arcobaleno, provando ad imporre un modello senza patrie, confini, figli, imprese, identità. Ma il fuoco cova sotto la cenere. Il caso di Mondragone, con la rivolta anti-bulgara tra i casermoni che un tempo ospitarono i senza tetto napoletani, rappresenta un segnale di quella grande polveriera che si chiama Sud Italia. Alle imputazioni di ignoranza, regressione municipalista, bieco campanilismo, si aggiungeranno quelle attuali di razzismo e populismo. I nuovi carri armati sono le navi delle Ong, le rinnovate promesse di elevazione sociale coincidono con il reddito di cittadinanza. Basteranno a fermare nuove Rivolte? Probabilmente no.

@barbadilloit

 

Alessandro Amorese

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