La dichiarazione di guerra di Mussolini: il fatale 10 giugno 1940, 80 anni fa

La Stampa, 11 giugno 1940

Solo gli ultraottantenni a tutto sopravvissuti, ed allora bambini, si possono ricordare di quel giorno. I “colli fatali di Roma” avevano salutato, una notte di appena quattro anni prima – che aveva depositato sul popolo italiano il manto di un’ebbrezza infinita, con l’eloquio alato del suo Capo – una sensazione sconosciuta e compiaciuta di potenza, di realizzazione, che dava i brividi:


“Un grande evento si compie: viene suggellato il destino dell’Etiopia, oggi, 9 maggio, quattordicesimo anno dell’era fascista. Tutti i nodi furono tagliati dalla nostra spada lucente e la Vittoria africana resta nella storia della Patria, integra e pura, come i Legionari caduti e superstiti la sognavano e la volevano. L’Italia ha finalmente il suo Impero. Impero Fascista, perché porta i segni indistruttibili della volontà e della potenza del Littorio Romano…Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’Impero. Lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le sue armi. In questa certezza suprema, levate in alto, o Legionari, le insegne, il ferro e i cuori, a salutare, dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma…”.

 

La sera del 5 maggio 1936, la voce del Duce dal balcone di Palazzo Venezia aveva anticipato l’avvenimento con parole che una generazione d’italiani mai avrebbe dimenticato: ad una imponente, eccitata folla di circa 400 mila persone e, attraverso la radio, a migliaia di megafoni sparsi in ogni contrada d’Italia: ‘Il maresciallo Badoglio mi telegrafa: oggi, 5 maggio, alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Addis Abeba…l’Etiopia è italiana. Italiana di fatto, perché occupata dalle nostre armate vittoriose, italiana di diritto, perché col gladio di Roma è la civiltà che trionfa sulla barbarie, la giustizia che trionfa sull’arbitrio crudele, la redenzione dei miseri che trionfa sulla schiavitù millenaria’. Roma tornava, magicamente, Caput Mundi…
Quella frenesia, ma non più colma di felicità, in molti pareva sopravvivere lunedì 10 giugno 1940, scrutando impazienti lo stesso balcone, attendendo da quella ben nota e martellante voce, che affascinava e stordiva, l’annuncio atteso; ma in non pochi, soprattutto da chi ascoltava, ma non era fisicamente presente, incrinata da un oscuro presagio d’incertezza, di giorni tormentati, intrisa dal brivido dell’ignoto smisurato. Preceduto dal vicesegretario del PNF, Pietro Capoferri, che ordina alla folla il rituale saluto al Duce, alle ore 18 Benito Mussolini, indossando l’uniforme da primo caporale d’onore della M.V.S.N., ‘appare, il braccio proteso nel saluto romano, il busto eretto, il volto sereno come una scultorea figura cesarea. La passione del popolo l’investe e l’avvolge in un alone di trionfo. Le grida, e acclamazioni, i canti, gli squilli, si fondono in un clamore tonante. La selva delle bandiere si solleva come una fiamma verso il cielo. È un attimo di una solennità incomparabile, è l’attimo atteso delle supreme decisioni, l’attimo che sta per segnare l’inizio di una nuova storia’, scriverà il Popolo d’Italia dell’11 giugno, dando fiato alla retorica più entusiastica.
Di seguito, l’incipit e l’ explicit del non breve discorso che esaltava, a scopo propagandistico, ‘l’Italia proletaria e fascista, fiera e compatta’ in piedi contro le ‘democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano’; contro ‘gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze, di tutto l’oro della Terra’:

“Combattenti di terra, di mare, dell’aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania. Ascoltate! Un’ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. […]Noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare, poiché un popolo di quarantacinque milioni di anime non è veramente libero se non ha libero l’accesso all’Oceano. Questa lotta gigantesca non è che una fase dello sviluppo logico della nostra rivoluzione. È la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto. È la lotta tra due secoli e due idee.[…] La parola d’ordine è una  sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo. Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!”


Su quell’annuncio, e sull’entrata nel conflitto dell’Italia, migliaia di pagine sono state poi scritte. Storici autorevoli, a partire da Renzo De Felice, hanno sezionato accuratamente prodromi e seguiti, intenzioni e riserve mentali, illusioni e paure, realismo cinico e calcoli sbagliati; militari, giornalisti, diplomatici, politici, intellettuali, rappresentanti delle istituzioni e del fascismo, politici, seguaci o avversari del Regime allora al potere, hanno chiosato e commentato mille volte quell’avvenimento di 80 anni fa, destinato a cambiare radicalmente il destino del nostro Paese.

La versione di Ciano e Bottai

Il Ministro degli Esteri e genero del Duce, Galeazzo Ciano, scriveva nel suo poi famoso Diario, rivelando il sentire autentico dell’Establishment: ‘Mussolini parla dal Balcone di Palazzo Venezia. La notizia della guerra non sorprende nessuno e non desta eccessivi entusiasmi. Io sono triste, molto triste. L’avventura comincia. Che Dio assista l’Italia’.
Giuseppe Bottai, Ministro dell’Educazione, nel Diario: ‘La piazza si gremisce d’una folla ora silenziosa, ora tumultuante. Si avverte la fatica dei pochi nuclei volitivi a indirizzare gridi e acclamazioni. Senso d’una quasi stupida disciplina, che il Partito non ha saputo illuminare con parole d’ordine. Mussolini parla preciso, senza gesti, ridicendo a memoria un discorso meditato’.

I ricordi della Petacci

Claretta Petacci, l’onnipresente amante grafomane: ‘Vado giù (a Palazzo Venezia) insieme a lui: giornata decisiva.Vedendo giungere i gruppi con bandiere s’inquieta come una belva, dicendo che è finita la poesia! Che aveva dato l’ordine che nessuno sapesse fino alle cinque e che a quell’ora dovevano suonare le campane, rullare i tamburi e il popolo accorrere, che hanno sbagliato tutto, che vogliono strafare (…) Disobbediscono sempre! Si inquieta come una belva, urla selvaggiamente, è fuori di sé, non si placa. Si rende conto della miseria morale. Cerco di calmare, piano ci riesco. La piazza si riempie: folla immensa, grida, cartelli. Parla alle sei: entusiasmo, urla; lo chiamano diverse volte. È stato buono con me: tenero, amorevole, comprensivo. Io piango. Lui mi comprende, dice che non mi lascerà mai, che nessuno abbandona il proprio amore in tempo di guerra’ (C.Petacci, Verso il disastro. Mussolini in guerra. Diari 1939-1940, a cura di M. Franzinelli, Milano, Rizzoli, 2011, p.327).

La memoria di Alberto Sordi

Alberto Sordi, quel giorno a Piazza Venezia, ha raccontato con humor la nostra entrata in guerra, gli inizi – ed in fondo il perchè l’abbiamo persa – in un’intervista del 1990: ‘La mia guerra’ (https://www.youtube.com/watch?v=1nFpNhYin-I; https://www.youtube.com/watch?v=ddVzRjn0V_M).
Fra le personalità che avevano espresso dubbi sull’intervento militare italiano, nessuna palesò pubblicamente la propria opposizione al conflitto e ‘sulla scrivania del Capo del Governo non vennero recapitate lettere di dimissioni’, come fu poi notato. Né generali, né ambasciatori, né accademici. Nessuno. La stampa, condizionata da censura e controllo imposti dal regime, ma anche da autocensura e buona fede, diede la notizia con grande enfasi. L’unica voce critica che si levò fu quella dell’Osservatore Romano, che rifletteva i sentimenti del Pontefice: ‘E il duce (abbagliato) salì sul treno in corsa’. Il capo della polizia politica, dell’OVRA (Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo), Guido Leto, prendendo atto della reazione dell’opinione pubblica italiana, riferì dal canto suo che, come nell’agosto del 1939 la polizia rilevò e riferì il quasi unanime dissenso della nazione verso un’avventura bellica, così nella primavera del 1940 essa segnalò il rovesciamento di una parte consistente di pubblica opinione, presa da un ossessionante timore di arrivare tardi. Neppure l’opposizione antifascista, in Italia o fuoruscita, condizionata anche dall’atteggiamento comunista, frutto del Patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto ’39, condannerà con convinzione l’intervento italiano. Rassegnato ammetterà il filosofo marxista Galvano Della Volpe, poi esponente del PCI fino alla morte: ‘Quell’Hitler ha il culo nel burro!’, secondo Enzo Biagi, ricordando l’estesa ammirazione in quel tempo per il Führer.

Il contesto storico

Ripercorriamo, per sommi capi, ciò che successe tra il 1º settembre 1939, l’attacco tedesco alla Polonia, ed il 10 giugno ’40. Fatti e circostanze che, per l’Italia, paiono ormai acquisiti dal punto di vista storiografico, senza grandi zone d’ombra. Benito Mussolini, nonostante il patto di alleanza con la Germania, il Patto d’Acciaio, dichiarò la non-belligeranza italiana.
Durante i nove mesi di incertezza operativa il Duce, conscio della grave impreparazione militare italiana, restò a lungo dubbioso fra diverse alternative, a volte contrastanti fra loro, oscillando tra la fedeltà all’alleanza con Adolf Hitler, l’impulso a rinnegarne la soffocante amicizia, la voglia di indipendenza tattica e strategica, il desiderio di facili vittorie sul campo di battaglia, la brama di essere ago della bilancia nello scacchiere della diplomazia europea. Egli, a conoscenza della crescente ostilità dei tedeschi nei confronti degli italiani, aveva paura di una possibile ritorsione in caso d’una loro vittoria; della sorte che il Führer avrebbe riservato all’Italia qualora questa si fosse sottratta ai suoi doveri di alleata. Il generale Emilio Faldella testimoniò che ‘più si profilava l’eventualità della vittoria germanica, più Mussolini temeva la vendetta di Hitler’. Sulla situazione, poi, pesava la questione dell’Alto Adige, che, nonostante le rassicurazioni, il Führer avrebbe potuto sfruttare come casus belli, nell’ottica  di unificare tutte le popolazioni di stirpe germanica, per annettere il territorio al Reich e per invadere militarmente l’Italia settentrionale. Addirittura il Duce fu sfiorato dall’idea che convenisse cambiare campo e schierarsi con gli anglo-francesi. Spaventato dalla situazione, diffidente nei confronti dei tedeschi, nel novembre ’39 Mussolini ordinò il prolungamento difensivo del Vallo Alpino  anche sul confine con il Reich, creando il ‘Vallo Alpino in Alto Adige’. La zona, massicciamente fortificata, venne popolarmente soprannominata ‘Linea non mi fido’, con evidente riferimento ironico alla ‘Linea Sigfrido’ (https://it.wikipedia.org/wiki/Entrata_dell%27Italia_nella_seconda_guerra_mondiale).

Ancora, nella primavera seguente Leopoldo III, re dei Belgi, fratello della Principessa di
Piemonte, Maria Josè, era avvisato da Mussolini dell’imminente attacco tedesco; confidenza infedele che gli costerà poi cara, giacchè mai più Hitler gli anticiperà le proprie mosse…Mussolini temeva che la non-belligeranza desse impressione che l’Italia potesse essere un Paese debole, ininfluente, codardo. Il problema non consisteva per lui nel decidere se il Paese avrebbe partecipato o no al conflitto, ma il quando e il come; cioè ritardardando il più a lungo possibile, l’entrata in guerra. Nonostante ciò, il Duce covava la speranza, ormai debole, di riuscire a riportare la situazione nell’alveo delle trattative diplomatiche.

Il 3 gennaio 1940 egli scrisse una lettera al Führer per comunicargli che l’Italia avrebbe preso parte al conflitto, ma solo nel momento che avrebbe ritenuto più favorevole. Nella stessa lettera, però, nonostante l’impegno ad entrare in guerra, Mussolini dimostrò di nuovo la propria titubanza, suggerendo a Hitler di trovare un accomodamento pacifico con Parigi e Londra. Fra marzo e aprile Hitler intensificò la sua pressione psicologica sull’alleato, mentre il fronte antitedesco crollava in una serrata sequenza di sconfitte. Le Forze Armate del Reich, mettendo in atto l’efficace tattica del Blitzkrieg, travolsero la Danimarca (9 aprile), la Norvegia (9 aprile-10 giugno), i  Paesi Bassi (10-17 maggio), il Lussemburgo (10 maggio), il Belgio (10-28 maggio) ed iniziarono l’attacco alla Francia. Le folgoranti vittorie germaniche, unite alle risposte tardive e inefficaci di inglesi e francesi, fecero rimanere gli italiani col fiato sospeso e causarono in Mussolini una serie di reazioni contrastanti. Il 28 aprile papa Pio XII inviò un messaggio al Duce per convincerlo a restare fuori dal conflitto. Il 6 maggio il re Vittorio Emanuele III, accennando alla ‘macchina militare ancora debolissima’, sconsigliò l’entrata in guerra. Contemporaneamente la diplomazia s’impegnò per evitare che l’Italia scendesse in campo al fianco della Germania: per impreparata che fosse l’Italia, il suo apporto rischiava di essere decisivo per piegare la resistenza francese e avrebbe potuto creare grosse difficoltà anche al Regno Unito. Il 14 maggio, su insistenza di Parigi, il presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt, indirizzò al Duce un messaggio dai toni concilianti, il quarto da gennaio, per dissuaderlo dall’entrare in guerra, seguito da un quinto. il 26 maggio. Tutte le risposte di Mussolini confermarono ch’egli voleva rimanere fedele all’alleanza con la Germania ed agli “obblighi d’onore” ch’essa comportava (Ibid.)

Pesò, e molto, anche il ‘Blocco marittimo’ deciso ed attuato da Londra contro tutte le merci
verso l’Italia, per strozzarne l’economia, a scopo ricattatorio. Ma mentre la revoca, almeno parziale inizialmente, del Blocco, si sarebbe potuta trattare, al decidere un conflitto armato ed ideologizzato con la ‘perfida Albione’ (a scopi di propaganda interna, chiaro, ma poco sentiti dalla popolazione della penisola), non solo Mussolini collocherà le sue poche fiches tutte su di un colore, ma butterà al vento le residue possibilità di poter un giorno tornare ad essere l’ ‘arbitro’, come lo era stato alla Conferenza di Monaco del 1938. Fu una drammatica, colpevole sottovalutazione dell’avversario ed una tragica presunzione, considerando il relativo ‘peso specifico’, economico e militare, dell’Italia, un bluff non giustificato da impellenze geopolitiche.
Mentre i francesi si aspettavano un lento avanzare della fanteria tedesca attraverso il Belgio, o un improbabile attacco frontale contro le fortificazioni della Linea Maginot, circa 2.500 carri armati, al comando di Guderian, uno dei maggiori genî militari del secolo, penetrarono in Francia dopo aver attraversato in modo fulmineo la foresta delle Ardenne, una regione collinare di profonde vallate e folta vegetazione, che Parigi riteneva inadatta ad essere attraversata da carri armati. Alla sorpresa per l’azione, tatticamente brillante, seguì il rapido e totale collasso delle Forze Armate francesi, il quale fece nascere la convinzione, nei nostri vertici militari, che Londra non sarebbe stata in grado di fronteggiare un attacco tedesco e che gli Stati Uniti non avrebbero avuto il tempo utile d’impegnarsi direttamente nel conflitto. Inoltre, la maggioranza dell’opinione pubblica statunitense era contraria alla guerra e Roosevelt, impegnato nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 1940, non poteva non tenerne conto. Mussolini si convinse e temette che l’Italia potesse «arrivare tardi» (Ibid.).

A nulla erano servite le opposizioni del re Vittorio Emanuele III e di Pietro Badoglio, motivate dall’impreparazione del Regio Esercito. Il sovrano aveva posto l’accento sull’importanza che avrebbe potuto avere nel conflitto un eventuale intervento armato statunitense, che sarebbe stato foriero di numerose incognite. Dello stesso avviso era stato anche il principe ereditario Umberto. Ciano aveva scritto nel suo Diario il 28 marzo: ‘Lungo colloquio col Principe di Piemonte. Mentre di solito è prudente e riservato, senza troppo esporsi, non ha nascosto la sua preoccupazione per l’orientamento sempre più germanofilo della nostra politica, preoccupazione aggravata dalla conoscenza delle nostre condizioni militari. Nega che dal settembre a oggi siano stati realizzati effettivi progressi nell’armamento: il materiale è scarso e lo spirito è depresso’.
Secondo Mussolini le rapide vittorie tedesche erano, invece, il presagio dell’imminente fine della guerra, per cui l’insufficienza delle nostre Forze Armate assumeva un’importanza del tutto secondaria. Accanto al suo timore che l’Italia non avrebbe avuto alcun beneficio nella futura conferenza di pace – qualora il conflitto fosse terminato prima del nostro intervento – si fissò nel Duce la convinzione che gli fosse necessario «un pugno di morti» per potersi sedere al tavolo dei vincitori e reclamare parte dei guadagni, in una contesa che, anche secondo l’opinione pubblica, 
sarebbe durata ben poco ed il cui destino era già scritto in favore della Germania. Fallirono gli ultimi tentativi di mediazione. La rassegnazione per l’inevitabile sopraffasse ogni altro disegno.

A fine maggio 1940, nei giorni in cui i tedeschi vincevano la battaglia di Dunkerque contro gli anglo-francesi, il Duce pensò che fosse arrivato il momento favorevole che attendeva da gennaio. Il 28 maggio comunicò a Pietro Badoglio, Capo di Stato Maggiore Generale, la decisione di intervenire contro la Francia e, la mattina successiva, si riunirono a Palazzo Venezia i quattro vertici delle Forze Armate, Badoglio, Rodolfo Graziani, Domenico Cavagnari e Francesco Pricolo per Esercito, Marina, Aviazione: in mezz’ora tutto fu deciso. Mussolini chiese a Vittorio Emanuele III che gli venisse ceduto il comando supremo delle forze armate, il quale, in base allo Statuto, era detenuto dal sovrano. Il re oppose resistenza, finendo con il concordare una formula di compromesso: il comando supremo sarebbe rimasto in capo a Vittorio Emanuele III, ma il Capo del Governo lo avrebbe gestito in delega. Aumentò in lui l’avversione verso il sovrano. Galeazzo Ciano fece convocare per le 16:30 del 10 giugno a Palazzo Chigi l’ambasciatore francese André François-Poncet e, secondo la prassi diplomatica, gli lesse la dichiarazione di guerra. La versione data dall’ambasciatore francese fu: «E così, avete aspettato di vederci in ginocchio, per accoltellarci alle spalle. Se fossi in voi non ne sarei affatto orgoglioso». Ciano avrebbe risposto, arrossendo: «Mio caro Poncet, tutto questo durerà l’espace d’un matin. Ben presto ci ritroveremo tutti davanti a un tavolo», riferendosi ad un futuro tavolo delle trattative al termine del conflitto. Alle 16:45 venne ricevuto l’ambasciatore britannico Percy Loraine, che restò imperturbabile. Hitler inviò immediatamente dei telegrammi di ringraziamento a Mussolini ed a Vittorio Emanuele III, anche se, privatamente, espresse delusione per le scelte del Duce, in quanto avrebbe preferito che l’Italia attaccasse a sorpresa Malta ed altre posizioni strategiche inglesi, anziché dichiarare
guerra a una Francia già sconfitta (Ibid.).
Paradossalmente, il Duce penserà di poter addirittura ancora trattare con Londra una eventuale uscita dal conflitto, se le cose si fossero messe male per l’Asse, ipotesi ch’egli giudicava peraltro remotissima, mentre il carattere ideologico dello scontro, anticipato dalle sciagurate ‘Leggi Razziali’ dell’autunno 1938, per quanto forzato e poco convinto, lo rendeva di fatto impossibile. Mussolini non si volle rendere conto che se “la guerra breve” di Hitler non fosse stata coronata dal successo egli si stava scavando la fosssa con le sue proprie mani, a cominciare dall’inevitabile perdita dell’Africa Orientale, ed al di là degli errori di mediocri capi militari, per la carenza di armi, equipaggiamenti e materie prime. Egli quasi scambiò, per tragedia dell’Italia, il conflitto armato come una gran polemica giornalistica, nella quale le parole sono armi contundenti, che però si può cercare di rigirare alla luce della piega presa dagli avvenimenti, mentre la ‘guerra totalitaria’, smisurata, ‘sporca’, reale in ogni sua miseria e sopraffazione, anticipata dalla WWI, non lo rendeva più possibile, contrariamente ai vecchi conflitti dinastici.

I preparativi bellici italiani erano stati delineati dallo Stato Maggiore dell’esercito nel febbraio 1940 e prevedevano una condotta strettamente difensiva sulle Alpi Occidentali ed eventuali azioni offensive (da iniziare solamente in condizioni favorevoli) nei Balcani, Egitto, Gibuti, Somalia Britannica. Si trattava di indicazioni di massima per la dislocazione delle forze disponibili, non di piani operativi. I vertici militari riconobbero l’inadeguatezza del Paese ad affrontare una guerra ma, allo stesso tempo, non presero posizione dinanzi all’intervento, ribadendo la loro fiducia in Mussolini. L’approccio del Duce al conflitto appena iniziato dall’Italia si concretizzò in direttive più o meno frammentarie, che egli indirizzava ai vertici militari: furono formulate richieste di operazioni nei teatri più disparati, mai trasformatesi in scelte precise e piani concreti, dettagliati.
(Cfr. Ibid.; R. De Felice, Mussolini il duce. Vol. II: Lo stato totalitario 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981; id., Mussolini l’alleato. Vol. I. L’Italia in guerra, 1940-1943. Tomo I: Dalla guerra «breve» alla guerra lunga, Torino, Einaudi, 1990).

I limiti dell’Italia

Mancavano una strategia complessiva e di ampio respiro, obiettivi reali ed un’organizzazione razionale della guerra. L’atteggiamento dell’Italia, che entrava nel conflitto mondiale senza essere attaccata, come nel 1915, né sapeva dove attaccare, che addensava le truppe alla frontiera francese non avendo altri obiettivi, altri piani nel cassetto, venne sintetizzato dal generale Quirico Armellini, badogliano, con la massima diventata il compendio della nostra suicida improvvisazione, altro che ‘una comoda passeggiata’: “intanto entriamo in guerra, poi si vedrà”. Sciaguratamente pesò la sedimentata sudditanza psicologica nei confronti del Capo e della sua immaginaria, enorme saggezza, sagacia, capacità, della sua tribunizia capacità d’illudere…
L’armistizio italo-francese di Villa Olgiata (24 giugno) era ormai imminente. L’avanzata degli italiani si arrestò a Mentone. Solo era stato scongiurato il pericolo di avere truppe tedesche, potenzialmente ostili, al confine occidentale della penisola. Nessun aereo italiano tentò di bombardare la Francia o il Regno Unito.Vennero, e presto, i giorni cupi delle sconfitte su tutti i fronti. Delle umiliazioni militari, dei soccorsi della Wehrmacht. Per anni. Fecero sembrare remotissime quelle notti di entusiasmo del 1936, quando l’Impero tornava sui ‘colli fatali’ di Roma.
Adesso l’Impero era perduto, sbarcavano le truppe nemiche, piovevano ovunque le bombe degli Alleati e molte di più minacciavano giungerne. Il 25 luglio, l’8 settembre 1943, e financo il 25 aprile 1945, furono così la conseguenza di quella disastrosa decisione di 80 anni fa, del 10 giugno ’40, del bluff mussoliniano non riuscito. Per anni s’era cantato “per la guerra di domani”, “anche i bimbi son guerrieri”, molta gloria sognata e fanfaronate: come far ora marcia indietro?
Ed altresì della incapacità della Monarchia e della casta militare di contrastarlo, il bluff. Ha ricordato Aldo A. Mola (che assolve, con indulgenza, la Monarchia, come se il lavacro del 25 luglio tutto avesse purificato): ‘La sconfitta, la resa, la guerra civile e il disastro seguente non furono frutto di un complotto pluto-giudaico-massonico, ordito da cospiratori interni in combutta con Poteri Forti esteri, ma fatale conseguenza del calcolo errato di chi aveva voluto l’ingresso in guerra’(https://www.pensalibero.it/giugno-1940-maggio-1945-cinque-anni-sotto-le-bombe-e-guerra civile).

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Gianni Marocco

Gianni Marocco su Barbadillo.it

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