Giornale di Bordo. Delio Cantimori, lo storico che visse (e sbagliò) due volte

La lettera all'intellettuale di destra Gioacchino Volpe, tra elogi e affettuosità, riportata nel saggio di Eugenio Di Rienzo

Delio Cantimori

Fra gli svantaggi che comporta l’incedere degli anni c’è un desiderio quasi morboso di riconoscimenti, agli antipodi della sprezzatura con cui in gioventù mi disinteressavo del giudizio altrui. Anche per questo ho ceduto alle lusinghe di uno strano sito, Academia,  che da tempo mi avvertiva di essere stato citato su pubblicazioni uscite in tutti gli angoli del globo. In cambio di un modesto abbonamento le sue ricorrenti mail mi promettevano di avvertirmi, versione telematica della vecchia Eco della Stampa, su tutto quello che era stato pubblicato su di me. Non si trattava del solito google-alert, che ti avvisa solo di quanto compare su di te in rete, ma del risultato della scannerizzazione di un’enorme quantità di pubblicazioni scientifiche.

Come direbbe un romano, ho avuto la sensazione di trovarmi davanti a una “sola”: la maggior parte delle citazioni si riferiva a ricercatori che erano solo omonimi o ad articoli in cui si parlava del consiglio dei mi-nistri. Ho avuto notizia, è vero, che il saggio su un oscuro libellista del Seicento con cui mi ero illuso di aprirmi la strada per una folgorante carriera accademica era stato elogiato qualche decennio dopo la sua pubblicazione da una docente universitaria, nonché di altri occasionali rimandi; ma la fama internazionale che speravo di avere incontrato era monopolio di miei omonimi.

Eppure non rimpiango i soldi spesi, perché mi hanno permesso di fare una scoperta inquietante, ma al tempo stesso interessante. Tanto l’algoritmo si è rivelato deludente nel fornirmi quello che speravo, tanto è stato diabolicamente abile nell’indovinare quali siano i miei interessi. Quasi ogni giorno, infatti, mi arrivano Pdf di pubblicazioni in prevalenza di carattere storico, spesso di alto livello culturale, che toccano temi a me cari. È come se l’algoritmo avesse dedotto, dal mio profilo su Wikipedia, dalle mie pubblicazioni, e chi sa da che altro, quali sono i libri e gli articoli che mi possono interessare. Nemmeno il più esperto fra i librai di un tempo – quelli che ancora sapevano consigliare i clienti invece di guardarli male se osano aprire il profilattico dentro cui sono involtati i volumi per sfogliarli, – sarebbe stato capace di indirizzarmi meglio.

Pur avendone tratto la sensazione (solo la sensazione?) di essere spiato telematicamente, non ho potuto fare a meno di apprezzare i vantaggi della situazione. La mia riluttanza a leggere libri sul computer, per motivi igienici e pratici, mi ha impedito di consultarli tutti per esteso, ma non di fare scoperte a tratti sorprendenti.

Una di esse è un saggio di Eugenio Di Rienzo intitolato Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e prima repubblica 1943-1960. Non è quello che i francesi chiamano un vient de paraître, un libro appena uscito: l’ha pubblicato nel 2004 la fiorentina casa editrice Le Lettere, erede morale della Sansoni in quanto appartenente alla famiglia Gentile, e non voglio certo farne la recensione. Però mi ha interessato più che se vi fossi stato citato io, in quanto è in larga parte dedicato a due giganti della storiografia che hanno indirettamente interagito con la mia vita: Gioacchino Volpe e Delio Cantimori.

Le letture di Gioacchino Volpe

Di Volpe studiai una delle prime opere, Movimenti religiosi e sette ereticali, per il primo esame di storia medievale. Nella “rossa” facoltà di Lettere non erano stati epurati i libri dello “storico ufficiale del fascismo”: merito di Ernesto Sestan, che era ancora un genius loci e lo stimava, ma anche di Giovanni Cherubini, un giovane socialista onesto anche intellettualmente, che dedicò un seminario alla sua interpretazione del medioevo. Ma soprattutto conobbi il figlio Giovanni, editore e animatore (nonché, aspetto non indifferente, finanziatore) della Fondazione intitolata al padre.

Il legame con Delio Cantimori

A Cantimori invece mi legò il fatto che il professore con cui mi laureai in storia moderna fosse Renzo Pecchioli, che era stato il prediletto fra i suoi ultimi discepoli. Pecchioli fu un uomo intelligente quanto sfortunato. Il maestro con cui si era laureato nel 1961 e che l’avrebbe dovuto portare in cattedra morì precocemente cinque anni dopo, mentre si arrampicava su uno scaleo per prendere un libro della sua sterminata biblioteca personale. In più, non l’aiutarono nella carriera accademica una sfortunata situazione familiare e un quasi patologico perfezionismo che lo faceva esitare a lungo prima di consegnare alle stampe le sue opere. Quando morì precocemente, era ancora professore associato.

Era un uomo di sinistra, come lo erano quasi tutti i docenti dell’istituto di storia della facoltà di Lettere fiorentina, anche se non era, come si sussurrava, parente di quell’Ugo Pecchioli che fu negli anni di piombo ministro dell’Interno nel governo ombra del Pci. Non condivideva però la faziosità livorosa che caratterizzava vari docenti, e soprattutto gli assistenti sgomitanti nel fare carriera. Mi stimava pur conoscendo le mie idee politiche, ma non poté far molto per aiutarmi in facoltà. La sua debolezza accademica si sommò alla mia debolezza politica in un ambiente dove – per usare un eufemismo – non ero certo amato, ed è noto che la somma di due debolezze non ha altro risultato che una debolezza maggiore.

Uno studio su Jacob Burckhardt

Credo che Pecchioli fosse interessato dalla mia curiosità intellettuale eterodossa e ne capii il motivo quando, per una tesina su Jacob Burckhardt che sarebbe divenuta anni dopo un breve saggio edito proprio con Volpe, mi consigliò la consultazione della biografia intellettuale di Delio Cantimori pubblicata da Giovanni Miccoli. Lì per lì non mi parve di grande interesse per il mio studio, ma la lessi ugualmente con interesse e a quasi mezzo secolo di distanza comprendo l’intima ragione di quell’invito. Cantimori, il suo maestro, era approdato al comunismo dal fascismo – un fascismo di sinistra che non escludeva l’interesse per il nazionalsocialismo, – salvo più tardi abbandonare il Pci dopo l’invasione dell’Ungheria. Forse più che alla mia tesina su Burckhardt il saggio di Miccoli sarebbe potuto servire a una mia eventuale redenzione, che invece non vi fu, nemmeno sotto forma di un nicodemico allontanamento dalla politica.

Nel frattempo cominciavo a collaborare con le Edizioni Volpe, aiutando fra l’altro un allora carissimo amico a curare l’appendice di un paio di volumetti che stava curando per la collana L’Architrave di Gianfranco De Turris. E con l’andare degli anni feci sempre più conoscenza con l’ingegner Giovanni Volpe, l’uomo che aveva regalato una biblioteca alla Destra con i soldi fatti con la sua impresa di lavori stradali e cui la Destra Nazionale preferì, al momento di dare un seggio in Senato, quell’Armando Plebe la cui carriera politica avrebbe avuto come capolinea la Stazione Termini.

Al tempo stesso continuavo ad approfondire la conoscenza del Cantimori d’anteguerra, la sua introduzione al saggio di Carl Schmitt sui Principi politici del nazionalsocialismo, su cui sostenni persino un esame di filosofia del diritto, i suoi articoli sul Dizionario di Politica voluto dal Pnf come contraltare della troppo “liberale” Enciclopedia italiana o i suoi contributi su “Studi germanici”, compresa una benevola recensione al Mito del sangue di Julius Evola. E del grande storico della cultura e della storiografia credevo di sapere tutto, compreso l’atteggiamento astioso che tenne nel dopoguerra nei confronti di Gioacchino Volpe.

Mi attendeva, invece, almeno una sorpresa, dal libro del professor Di Rienzo. Intanto, e questo lo avevo intuito già dalla lettura dei Taccuini mussoliniani di Yvon de Begnac, Volpe era assai meno lo storico ufficiale del regime che tutti pensavano. La protezione che egli accordava a giovani studiosi come i fratelli Rosselli gli alienarono le simpatie di Mussolini e gli preclusero molti incarichi. La descrizione dell’incontro con lui che Amelia Rosselli ci ha lasciato nelle sue memorie, con tanto di lacrime dell’insigne storico impotente a far “uscire dal malpasso” il suo allievo Nello, fa capire la nobiltà dei suoi sentimenti e il suo liberalismo nei confronti degli oppositori del regime. Inoltre,  Volpe si oppose coraggiosamente alle leggi razziali, mentre Cantimori ancora nel 1939 si candidava con lui per redigere una storia antologica del Partito nazionalsocialista. Nel dopoguerra, la sua orgogliosa rivendicazione dei meriti del passato regime era anche e forse soprattutto una reazione all’ingiusta epurazione che l’aveva colpito nonostante non avesse aderito alla Repubblica sociale e anzi le autorità della Rsi ne avessero tolto di circolazione i libri. Si schierò con i monarchici, ma difese il diritto all’esistenza del Msi contro il suo minacciato scioglimento da parte di Scelba e il gruppo universitario “Caravella”, nucleo del Fuan romano, pubblicò nel 1951 una silloge di suoi scritti sotto il titolo di “Omaggio a un Maestro” e con l’introduzione di Giulio Caradonna. Questa perdurante militanza a destra, amplificata dall’attività editoriale del figlio, non contribuì a rimuovere anche sbolliti i furori epuratori l’ostracismo nei confronti della sua memoria. Quando morì, nel 1971, l’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat inviò ai suoi familiari un telegramma in cui esprimeva cordoglio “per la morte dell’insigne medievalista”: per onorare la memoria dello storico dell’età moderna i tempi non erano ancora maturi.

La lettera di Cantimori a Gioacchino Volpe

Eppure c’era già stato chi, sia pure in privato, aveva già superato quell’ostracismo. Ed era una persona che non si sarebbe mai potuta sospettare: Delio Cantimori. Averlo rivelato è forse uno dei maggiori meriti del saggio di Di Rienzo.  Nel febbraio del 1962 il grande storico della cultura scrisse a Gioacchino Volpe una lettera che lo stesso Di Rienzo definisce “di stima profonda e di sentitissimo elogio”. Una lettera commossa, e commovente per chi è capace di cogliere il dramma di due persone: l’una privata della cattedra e ridotta in povertà nell’immediato secondo dopoguerra, tanto da vivere solo degli scarsi diritti d’autore dei suoi libri e degli articoli sul “Tempo”, l’altra riverita nel mondo accademico, docente della prestigiosa Normale pisana, ma tormentato intimamente dal rimorso di avere sbagliato due volte in politica, prima credendo che i fascisti avrebbero davvero fatto la rivoluzione, poi iscrivendosi al Pci e trascurando gli studi storici per tradurre Marx.

In quella lettera a Gioacchino Volpe, Cantimori prima dichiarava di non aver “detto né fatto nulla che smentisse la riconoscenza che ho avuto per Lei da quando ho cominciato a leggere i suoi libri” (e questo era vero solo in parte). Ma poi passava dalla sfera della stima intellettuale alla mozione degli affetti. “Ricordo bene – scriveva –  che mi fece fare il viaggio di ricerche più lungo, più bello e più proficuo di tutti i miei anni di studio (…) quel viaggio, a cui lei mi invitò senza che io fossi tra i suoi allievi e senza mai avermi visto, mi ha condotto dagli studi filosofici agli studi storici. Anche di questo sono grato a Lei”.

Quando scriveva queste parole Cantimori non aveva ancora  sessant’anni, ma già, con la memoria presbite della vecchiaia, ricordava con un velo di commozione i giorni della sua giovinezza studiosa. Ed era sul serio un vecchio, schiacciato dal rimorso  dei suoi fallimenti, che affogava spesso nell’alcol, tanto che alcuni suoi ex alunni ricordano di averlo visto addormentarsi durante le sue stesse lezioni. Secondo qualcuno, il banale incidente che ne avrebbe provocato la morte potrebbe essere stato conseguenza di questo umanissimo modo di reagire al naufragio dei suoi sogni politici. E non escluderei che qualche “generoso liquore”, tanto per usare l’espressione di Giacomo Leopardi nel “Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare”, possa aver esercitato la sua influenza anche su quella lettera a Volpe, sincera e quasi patetica esplicitazione di una riconoscenza a lungo rimossa. Ma questo non toglie nulla, anzi forse aggiunge, alla memoria di un grande maestro degli studi storici, che quasi al termine della sua esperienza terrena ebbe il coraggio di ammettere di aver vissuto, e sbagliato, almeno due volte.

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Enrico Nistri

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