Dominique Venner “Samurai d’Occidente” dall’amicizia con Jünger a Notre Dame

Dialogo sullo scrittore francese tra Adriano Scianca e Michele De Feudis

Dominique Venner

Dominique Venner e Yukio Mishima
Dominique Venner e Yukio Mishima

Nel settimo anniversario dalla morte, Barbadillo ricorda lo storico e saggista francese Dominique Venner. Con un dialogo, a tutto campo, tra Adriano Scianca, direttore de Il Primato Nazionale e scrittore (relatore ai convegni dell’Institut Iliade), e Michele De Feudis, autori di recenti studi sull’autore di “Cuore ribelle”.

Dominique Venner è uno degli intellettuali che più hanno dato una rotta all’area non conformista negli ultimi anni. Che itinerario di lettura si può suggerire per conoscere le coordinate del pensiero dello scrittore-storico francese?

“Fino al momento del suo sacrificio, di Venner erano stati tradotti in italiano solo due saggi, peraltro da tempo introvabili: Il bianco sole dei vinti, sull’epopea delle forze confederate americane, e Baltikum, sui Freikorps tedeschi. Oggi ce ne sono molti di più: Per una critica positiva (Passaggio al bosco), che è un ottimo breviario militante, Cuore ribelle (controcorrente), Un samurai d’Occidente (Settimo sigillo), Storia e tradizioni degli europei (L’arco e la corte), che sono tre libri per molti aspetti simili e in cui c’è molto del Venner che poi si darà la morte a Notre Dame. E ancora, di taglio più storico, Ernst Jünger. Un altro destino tedesco (L’arco e la corte)e Il secolo del 1914 (Controcorrente). Per chi invece avesse un approccio più analitico, resta sempre valido il classico e documentatissimo studio sulla Nouvelle Droite, Sulla nuova destra, di Pierre-André Taguieff, in cui il ruolo di Venner nella maturazione dei migliori fermenti culturali europei emerge in modo chiaro”.

La definizione di “Samurai d’Occidente” lo connette con il filone degli esteti armati del Novecento europeo. Come interpretò questa vocazione?

“L’insistenza sulla tenuta etica, sulla costruzione di sé, sullo stile, il fatto di aver voluto fare della propria esistenza un esempio, in vita, e un simbolo, in morte, lo accomunano certamente alla categoria degli “esteti armati”. A patto che questa insistenza sulla dimensione estetica non ne svuoti però il messaggio politico”.

Adriano Scianca

La sua morte, con un suicidio dalla forte valenza stoica e politica, ha fatto discutere. Su Il Foglio hai intervistato Fabrice, il camerade che accompagnò Venner nella cattedrale di Notre Dame. Cosa colpisce  di più  quel racconto?

“Ho conosciuto Fabrice in due occasioni, a Roma e a Parigi. Mi ha colpito molto la concentrazione, la drittura (come direbbe Evola) della persona, unita però a una affabilità, simpatia e umiltà stupefacenti. Il racconto di quel 21 maggio ha fatto a me e a chi l’ha ascoltato una strana impressione, come se fosse qualcosa che veniva da antiche saghe e non piuttosto qualcosa che è avvenuto l’altro ieri, a un’ora di aereo da noi, in una metropoli moderna e cosmopolita. Tutti noi abbiamo legami umani più o meno profondi, abbiamo dei fratelli spirituali, i più fortunati hanno persino dei maestri, ma è difficile immaginare se stessi nella posizione in cui si è trovato Fabrice quando Venner gli chiese di “assisterlo” a Notre-Dame. È qualcosa che viene da un altro mondo, da un modo diverso di guardare a se stessi, agli altri, alla vita e alla morte”.

Venner voleva risvegliare l’Europa dal torpore del pensiero unico. Il suo messaggio ha avuto finora più una rilevanza metapolitica che un riflesso politico.

“In termini di consapevolezza e di ricettività immediata al messaggio, direi che il mondo identitario italiano è arrivato prima di tanti altri analoghi ambienti europei, ma poi forse si è un po’ fermato lì. Il risultato è che il gesto di Venner è entrato nell’immaginario come un atto singolare, estemporaneo, uno squarcio di bellezza e tragedia che però è fine a se stesso, laddove secondo me Venner voleva che avesse uno specifico significato politico. In questo modo, però, si rende quel gesto “idiota” nel senso greco del termine: privato, incomunicabile, estraneo alla città (che poi è quello che diceva Nietzsche della parabola terrena di Gesù Cristo). Venner, invece, voleva parlare proprio alla città. Detto in altri termini, ho l’impressione che a forza di voler esaltare le “idee che diventano azioni” o “lo spirito che si fa sangue”, le azioni finiscano per oscurare le idee e il sangue finisca per inghiottire lo spirito. E invece dobbiamo tornare ad avere familiarità con le idee, di Venner e in generale. Chiederci di nuovo, e da capo, cosa è nostro e cosa non lo è, chi è il nemico e chi l’amico, perché siamo qui e per cosa combattiamo. La crisi del sovranismo (perché, a differenza della vulgata che va di moda dalle nostre parti, è il sovranismo a essere in crisi, non il globalismo) si basa anche su questo oblio delle idee in favore delle suggestioni, della riflessione in favore della caccia alle opportunità”.

Un samurai d’Occidente di Venner (Settimo sigillo)
Ernst Junger. Un destino tedesco, di Dominique Venner

Venner aveva interlocuzioni profonde con Ernst Von Salomon e una confidenza “tra miliziani” con Ernst Jünger. Con quest’ultimo, come si rileva dalla biografia curata dallo storico francese, condivideva in primis il vissuto dell’esperienza bellica (quella del tedesco di ben altra intensità) e una ricerca spirituale. Differente però è stato il loro destino: Venner resta in prima linea nell’agone culturale, su una posizione definita; Jünger diventa un intellettuale che supera gli steccati della prima metà del novecento. Un esito inevitabile?

“Venner ha attraversato varie fasi: il combattente, il sedizioso, il militante, l’agitatore culturale, infine il punto di riferimento esistenziale. Junger si è posto su un altro livello (anche perché se lo è potuto permettere). Confesso di non amare moltissimo il secondo Junger, quello dell’Anarca. Amo più, in questo seguendo Guillaume Faye, più il rivoluzionario del ribelle. Ma molto dipende anche da quello che ne facciamo noi. Ovviamente il peggior Junger è meglio del meglio della cultura contemporanea, questo credo non occorra sottolinearlo”.

Cuore ribelle di Dominique Venner

Dal breviario venneriano, potente lettura in appendice al “Samurai d’Occidente”, emerge il recupero della dimensione fisica e architettonica della spiritualità europea, con l’invito a “raccogliersi” nelle chiese o nelle cattedrali. Sostanzialmente invitava l’uomo europeo a riscoprire il “tempio”, per superare la superficialità del quotidiano e tendere verso una dimensione differente dell’esistenza, verticale. Al tempo della digitalizzazione delle connessioni umane, invitava ad andare controcorrente…

“Sono passaggi molto belli, anche se già un po’ «difensivi» (d’altronde Venner aveva una impostazione in qualche modo «di destra», seppur di una destra regale). C’è un mondo moderno che tende all’alienazione e dei luoghi non moderni in cui ritrovarsi. È un’indicazione preziosa, ma andrebbe forse accompagnata da un’indicazione su come risacralizzare i luoghi, qui e ora. Non si torna indietro, diceva Gottfried Benn, c’è solo l’avanti…”.

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Michele De Feudis - Adriano Scianca

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