“Il jazz è rivolta contro il vuoto post-moderno”

L'intervista di Alessio Di Mauro a Eugenio Rubei del mitico Alexander Platz di Roma: "Musica e progetti da difendere e sostenere"

In uno dei suoi aforismi più illuminanti il filosofo tedesco Ernst Jünger – teorico del ribellismo rivoluzionario-conservatore e del “passaggio al bosco” – fonda il proprio radicale anarchismo non sul disprezzo dell’autorità ma, sorprendentemente, proprio sulla percezione di un assoluto bisogno di questo nobile principio. Buona parte dello spirito che ha caratterizzato gli anni incendiari del primo Novecento – quelli delle avanguardie artistiche – lo ritroviamo proprio in questa dimensione solo apparentemente paradossale: la coniugazione dell’idea di modernità e di progresso con lo spirito, immobile, dei valori tradizionali.

Quello che lega, come un filo sottile, ma infrangibile, la “sfida lanciata alle stelle” dai futuristi con l’Iperuranio idealistico di Platone. La tecnica e il progresso liricizzati da Marinetti non sono quelli al servizio del potere finanziario materialistico che domina oggi la nostra quotidianità. I tram, le macchine e la velocità tradotta sulle tele dalle linee forza di Boccioni e Balla, incarnano l’energia di una modernità che voleva tagliare i ponti con il mondo stagnante delle false certezze borghesi figlie dell’illuminismo e del positivismo cristallizzato nella “Belle époque”. Una modernità feconda di valori antichi in cui si riattualizzava la tradizionale tensione dell’uomo verso la trascendenza e il superamento dei propri limiti. Una modernità alla fine tradita dal post-moderno e dalla contemporaneità dove le logiche di mercato hanno soppiantato la dimensione spirituale.

Il jazz che rimane

I visionari delle avanguardie non ce l’hanno fatta. E la loro meravigliosa nicciana utopia – che all’inizio del secolo scorso da estetica si fece politica, per provare a trasferire a tutto il popolo non soltanto i beni materiali, ma anche la bellezza (ossia la dimensione eroica e superomistica della vita, tradizionalmente accessibile solo a un’aristocrazia di singoli illuminati) – resta una rivoluzione incompiuta che negli anni del nichilismo imperante ha finito per rovesciarsi nel suo contrario.
Qualcosa di prezioso, però, di quella stagione ci resta. Soprattutto nel nostro Paese. Ci restano le architetture metafisiche e visionarie che declinano in una spettacolare chiave moderna la bellezza arcaica di Roma. Ci resta la purezza di un linearismo fatto di sintesi e di un nuovo concetto di armonia e di ordine dinamico sul quale si fondano il design, la grafica, il fumetto e buona parte del linguaggio visivo più virtuoso del cinema e della televisione.
Ci resta il jazz. Sì, perché sono stati proprio i futuristi a portare il jazz in Italia, considerandolo “l’incarnazione musicale di una nuova civiltà che vuole chiudere definitivamente con la nostalgia patetica dell’anima borghese ottocentesca”. Così scrive Gherardo Maffei sulle colonne di “Regime Fascista” negli anni ’30. Anni in cui nascono i primi circoli di jazzisti italiani.
Non può stupire, quindi, se l’ultima brillante stagione del jazz italiano è stata animata da un seguace di un filosofo tradizionalista, passato per le avanguardie e per l’esperienza del dadaismo, come Julius Evola.
Parliamo di Giampiero Rubei, fondatore del celeberrimo Alexanderplatz di Roma e direttore artistico d’importanti rassegne jazzistiche di rilievo internazionale. Figura ormai leggendaria nel panorama culturale della Destra italiana. Dopo la sua scomparsa il prezioso testimone è stato raccolto dal figlio Eugenio Rubei con il quale ci addentriamo in questo sublime viaggio nel ritmo dionisiaco e sincopato, figlio di una modernità illuminata dalla scintilla archetipica della tradizione.

La musica non si ingabbia

A proposito delle suggestioni idealistiche che abbiamo evocato, Emil Cioran si chiese, in una sua celebre massima, “perché frequentare Platone quando un sassofono può farci intravedere altrettanto bene un altro mondo?”. Qual è il segreto di questo straordinario potere evocativo del jazz?

Partiamo dal presupposto che la musica nasce nell’antichità proprio in connessione alla ritualità e al sacro. Nei canti orfici come nello sciamanesimo svolge un ruolo essenziale nella “rottura” e nel superamento del reale. Questa caratteristica anagogica si conserva per esempio nei canti gregoriani. E la musica, attraverso i bardi, era una componente essenziale nella trasmissione orale dei miti e dell’epica.
E’ quando si accademizza – e soprattutto quando diventa intrattenimento – che la musica perde la sua dimensione magica. E questo diventa vero soprattutto quando prevale la visione del mondo borghese. Il jazz nasce come avanguardia spontanea, rompendo tutte queste convenzioni e affermando un vitalismo per certi versi primordiale, che proprio per questo riporta la musica verso le sue funzioni primigenie. è una rivoluzione che tende a ripristinare funzioni arcaiche non a celebrare la modernità nel suo vuoto valoriale ed esistenziale. Per questo direi che sta benissimo accanto a Platone, non lo rende superfluo.

 

Tuo padre è stato amico personale di Chet Baker. Ma potremmo citare tanti altri veri e propri miti che hanno varcato la soglia dell’Alexanderplatz. Se tante altre espressioni artistiche sono state quasi totalmente travolte dallo tsunami del nichilismo del nostro tempo (al punto che oggi è faticoso trovare nel mondo delle arti figurative, così come in quello della scultura o della poesia, protagonisti all’altezza del passato) lo stesso non può dirsi per il jazz che conta di diversi indiscutibili talenti tuttora in attività. Si tratta uno stato di grazia irriducibile o i segnali che vedi fanno pensare che il declino interesserà anche il vostro mondo?

Il jazz ha gia attraversato il suo momento più buio e oggi siamo di nuovo in corsa. L’attenzione si è spostata dagli Stati Uniti al resto del mondo e in particolare all’Europa. Dunque sono ottimista: in questo momento ci sono ottimi musicisti in circolazione ed entusiasmanti progetti da portare avanti.

 

Più o meno intorno agli anni ’70 il jazz entra nel salotto buono della “musica alta” e dei conservatori. Non si è trattato di una sorta di tradimento dello spirito “anarchicheggiante” di un genere che nasce proprio come reazione al mondo borghese delle accademie?

Forse sì, ma bisogna anche dire che uscire dal ghetto ha permesso a questo mondo di diventare industria.
Senza questo passaggio probabilmente non sarebbe sopravvissuto per più di un secolo, come invece è successo. E comunque la vocazione antiaccademica e rivoluzionaria il jazz l’ha conservata. Non poteva essere altrimenti.
Mi piace ricordare, a tal proposito, che la prima vera incisione jazzistica la dobbiamo ad un trombettista italiano, Nick La Rocca, figlio di un emigrante a New Orleans. Ebbene, il padre di Nick era la tromba dei bersaglieri di La Marmora durante la presa di Porta Pia.

 

Più forti del virus

Immaginiamo che anche voi stiate soffrendo non poco la brusca frenata imposta dall’emergenza sanitaria che ha messo in crisi l’intero comparto degli spettacoli dal vivo. Intravedete qualche spiraglio per ripartire al più presto, magari dalla splendida cornice di Villa Celimontana?

Villa Celimontana ed Alexanderplatz rappresentano tanto per il mondo del jazz internazionale. La kermesse di Villa Celimontana, in particolare, è stata per 20 anni la mosca bianca di tutti i grandi festival mondiali. L’unica voce libera, lontana dagli schematismi di genere, che ha rappresentato il meglio di quello che può offrire un festival, sia sul piano strettamente artistico che al livelllo di indotto.
L’intenzione, dunque, è quella di riprendere al più presto. Il mondo politico e culturale, vicino alla sensibilità che anche nel corso di questa intervista abbiamo tracciato, dovrebbe aiutarmi a farlo e a proteggere, in futuro, una realtà così preziosa.

 

*Da Candido di aprile 2020

Alessio Di Mauro*

Alessio Di Mauro* su Barbadillo.it

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