Cultura. Il surrealismo umano nel “Viaggio al termine della notte” di Louis-Ferdinand Céline

Céline

Luis Ferdinand Céline

Seconda rilettura di questi tempi.
Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline. Il romanzo, pubblicato nel 1932, fu subito ritenuto un capolavoro, un vero e proprio avvenimento letterario e fece scandalo. Da allora la fama di scrittore maledetto, di misantropo, di cinico immoralista perseguitò il suo autore fino alla fine dei suoi giorni. Il romanzo scrive Moreno Marchi, «oltre ad essere una specie di “manifesto” delle moderne angosce (dal quale gli esistenzialisti del secondo dopoguerra attingeranno molto), è anche un inconsueto, sconvolgente trattato di stile. Gli ormai celebri puntini di sospensione che si definiranno nei libri successivi, l’uso costante dell’argot parigino, lingua nella lingua, lingua dell’odio, il periodare discorsivo, le affabulazione, le improvvise intromissioni visionarie, l’immediatezza comunicativa, costituiscono la più importante innovazione narrativo-espressiva della contemporaneità» (in Céline Drieu. Tra schermo e palcoscenico, Settimo sigillo, 1999).

La scintillante novità del linguaggio di Cèline fu rilevata dai critici suoi contemporanei, tra i quali Pierre Drieu La Rochelle, che in un articolo pubblicato sulla Nouvelle Revue Française del maggio 1941 scrisse: «Come mostrare la verità del nostro tempo in tutta la sua deboscia democratica e primitiva, nel suo immoralismo a breve termine, nel suo epicureismo da sobborgo, nella sua oscena incultura da salotto, nella sua disperazione che finge d’essere impudente, se non rompendo con ogni accademismo, se non riconoscendo mediante un processo patente della sintassi il disastro dell’essere logoro e ritorto? Cèline maneggia il linguaggio popolare con scienza consumata e astuzia superiore» (in L’eroe da romanzo, Mimesis, 2018).
Vita e letteratura, visionarietà e crudo realismo si intrecciano nella narrazione fino al punto, come notava Drieu, da dare luogo a una sorta di surrealismo, «ma un surrealismo che rimane solidamente ancorato all’umano.»

Cèline ci parla della miseria degli uomini, della loro sozzura fisica e morale, della loro “sconfitta di esistere e di vivere”:

«Il peggio è che ci si domanda come il giorno dopo si troverà abbastanza forza per continuare a fare ciò che s’era fatto il giorno prima e da molto tempo, dove si troverà la forza per quei tentativi stupidi, per quei mille progetti che non arrivano a nulla, per quei tentativi di uscire dalla schiacciante necessità, tentativi che falliscono sempre, e tutti per convincersi una volta di più che il destino è insormontabile, che bisogna ricadere in basso della muraglia, ogni sera, sotto l’angoscia di questo domani sempre più precario, sempre più sordido.»

Ne ha per tutti il romanziere francese, per i poveri dei sobborghi, per i borghesi, per i poveri di spirito, tutti egualmente chiusi nei loro egoismi, nelle loro vanità, nelle loro menzogne, nei loro tentativi fallaci e sfortunati di felicità.
Forse l’amore potrebbe dare un po’ di speranza a questo mondo. Infatti, «è più difficile rinunciare all’amore che alla vita.» Sennonché, «essere innamorati è nulla, è restare insieme che è difficile.» E poi l’amore non è «l’infinito messo alla portata dei cani»? C’è, è vero, alla fin fine, il sesso. C’è la “valanga di donne assolutamente belle”, desiderabili, con la loro “tentazione palpabile”, di cui s’avvede il protagonista del romanzo, Bardamu, girovagando per una New York descritta in modo inimitabile con la sua inutile smisurata frenesia di vita:

«New York è una città in piedi. Se n’era già viste noi delle città, certo, e delle belle anche, e dei porti e di famosi. Ma da noi, nevvero, sono coricate le città, lungo il mare o sui fiumi, s’allungano sul paesaggio, aspettano il viaggiatore, mentre quella là, l’americana, non s’illanguidiva, oh no, si teneva ben diritta, laggiù, tutt’altro che vogliosa di baci, dritta da far paura. (…) La mia stanchezza si aggrappava dinanzi a quelle distese di facciate, a quella monotonia di lastricati, di mattoni e di travature all’infinito e di commercio e di commercio ancora, questo cancro del mondo, che prorompeva con reclames promettenti e pustolose. Centomila menzogne farneticanti.» Ma anche il sesso si perde nella notte. «La notte è uscita dal di sotto delle arcate, è salita su contro il castello, ne ha preso la facciata, le finestre una dopo l’altra, che fiammeggiavano dinanzi all’ombra. E poi si sono spente anche loro, le finestre.»


Nella visione cupa, disperata, irridente di Cèline sembra che niente possa salvarci, la notte è la formidabile metafora dell’oblio, del nulla, del sonno senza sogni, della morte che tutto cancella e tutto prende: «È questa, la vita, un po’ di luce che finisce nella notte.»
E qua emerge, a ben vedere, un aspetto affatto insospettato del romanziere francese, che ben aveva colto Drieu:

«C’è del religioso in Céline. È un uomo che sente le cose seriamente ed essendone attanagliato è costretto a gridare sui tetti e urlare agli angoli delle strade il grande orrore di queste cose. (…) C’è del religioso in Céline nel senso ampio del termine: è legato alla totalità della cosa umana, sebbene non la veda che nell’immediatezza del secolo.»

Céline ha la stoffa preziosa e tremenda di un predicatore medievale.

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Sandro Marano

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