Ritratti. Alberto Arbasino era Tom Wolfe e Truman Capote con le note di Mina

Alberto Arbasino

Era Tom Wolfe e Truman Capote col ritmo delle canzoni di Mina, esportava Gadda e ripassava Proust giocando a flipper, dava del tu a Borges e alleggeriva Adorno, spernacchiava Kerouac e spiegava l’Italia alla Callas, non era uno scrittore ma una nazione in cantiere: di grazia e melodramma, lirica e parolaccia, un cocktail d’avanguardia letteraria e twist, alternando una festa a una mostra, in un eterno Gran Tour. Alberto Arbasino – morto a novant’anni dopo due di malattia –  partito da Voghera, dove incontrava il male di vivere senza salutarlo, era arrivato ad essere l’aristocrazia culturale tra giornali e letteratura, opera lirica e cinema, e in mezzo persino televisione: affrontata come una leva obbligatoria per capire il Novecento (in Rai con “Match”). Sta in cima e in gran compagnia, perché aveva orecchio e sguardo, sentiva mode e rivoluzioni, e le raccontava: è stato il nostro Kapuściński da sala da ballo e salotto, il più grande compilatore di elenchi con musica, una specie di Modugno in filastrocca che alternava Calasso e Carosone, ironia e antropologia, spider e aneddoto risolutore: tutto avvolto dalla conversazione su pianoforte, mai stonata. Era straripante, e se ne accorse subito Italo Calvino che gli spaccò il primo libro di racconti in due: «così hai anche il secondo già pronto» fu la spiegazione, poi seguita dalla consegna: «mai più di cento pagine, altrimenti i critici non ti leggono e recensiscono», consiglio dimenticato con il romanzo scritto e riscritto per tutta la vita: quel “Fratelli d’Italia” – che è l’equivalente letterario del “Sorpasso” – l’unico romanzo dove il boom è protagonista e c’è l’indolente pellegrinaggio sulle strade italiane tra spiagge e cantieri, accidia e desideri e fughe, via dalla ciclicità matrimoniale filmica e letteraria che già l’affliggeva, alla ricerca della vertigine su pagina come fuori. Dopo, solo Pier Vittorio Tondelli è riuscito con “Autobahn” a bordeggiare l’On the road fischiato del maestro di Voghera. Che correva, tantissimo, e correndo scriveva, pronunciava, segnava, intervistava, e poi riscriveva, si ripronunciava, ci ri-segnava e re-intervistava quelli che contavano, e poi misurava la distanza, perché dove Nabokov aveva le farfalle lui aveva i giornali, ne poteva scrivere un paio da solo ogni giorno, per quante cose vedeva, masticava e telegrafava. «Giovane intellettuale bien élevé che con la grazia rendeva tutto possibile» come lo descrisse Nello Ajello nei suoi “Illustrissimi”, passava tra università – fu allievo di Kissinger ad Harvard – e salotti, redazioni e movimenti – il Gruppo 63, di cui fu protagonista – e persino in parlamento – col PRI – ma si fermava poco, sempre inquieto, incuriosito da qualcosa di lontano e ancora non ben compreso dal paesino come dal Paese, perché era un provinciale come Federico Fellini o Giorgio Bocca, e aveva nelle orecchie le campane – manzoniane – dei vespri e per questo era allenato ai richiami, al lasciare i campi per imparare il latino, e poi il francese, il greco, l’inglese, il tedesco e lo spagnolo, ma senza mai far pesare, senza spendersi, anzi, con l’eleganza distratta di chi fa le cose quasi obbligato prima di partire per le vacanze. E la sua è stata una vita di vacanze, con qualche distrazione: i libri. Si sentiva un espressionista mentre intorno gli davano del barocco, in realtà era gaddiano per come saltava d’emblée da Bizet ad Eminem, dall’opera al rap, dall’alto al basso, sempre con quel distacco da terrazza romana vista San Pietro, dove il lombardo e il suo illuminismo, ormai smandrappato, fattosi au-ttore “e/o” cinematografaro “e/o” sceneggiatore sentimental “e/o” hard-romanticissimo insegnava – attraverso il cazzeggio – al resto del mondo come si poteva uscire dal neorealismo con eleganza reazionaria.

Arbasino era la via d’uscita dai conformismi e dai magisteri stilistici, un esorcismo contro le bariccate, i maiuscoletti e le semplificazioni, un giocoliere del pensiero capace di sezionare anche gli Anni di Piombo senza perdere l’ironia né metterci la collera. Ha scritto come ha parlato e viceversa, in una lingua ricca e piena di suoni che rifletteva i viaggi e gli incontri. E man mano che l’Italia sceglieva “la vita bassa” e si “zombizzava”: Arbasino moriva di saudade, provando a raccontare i fasti perduti, alternando l’essere avanguardia e l’andare all’attacco del mondo salvando quel poco che c’era da salvare in teatro come in pittura, generando irritazione, senza smettere di ballare: «si sbatteva come un esordiente» scrisse Edmondo Berselli che l’adorava, e faceva tenerezza, perché non si sentiva un «venerato maestro, secondo la sua categorizzazione che vedeva la «brillante promessa» diventare «solito stronzo» prima d’approdarvi. Sia i suoi titoli che molte sue espressioni sono diventati modi di dire: “la gita a Chiasso”, “la bella di Lodi” o “la casalinga di Voghera”, riuscendo a raccogliere – dall’alto – il meglio del popolare, come solo al cinema i Vanzina. Cercava il miracolo fra la costanza della sua lingua e le infinite varianti dei suoi racconti, mentre la narrativa italiana produceva romanzi col certificato medico, racconti del gatto di casa o avventure scolastiche con lutto delle zie materne. Arbasino no, continuava a giocare tra supereliogabali e supergabole, tra sperimentalismo e birignao (altrui) al punto che quando si fece crescere i baffi ci fu qualcuno che pensò che dopo la tivù voleva fare cinema (porno), invece era solo un vezzo, uno dei tanti, facevano pendant con un completo marron o forse con l’Olivetti elettrica che usava per scrivere. È andato alla Scala e in ogni teatro che si rispetti, ha diretto opere, e pure rimproverato Karajan, mentre diceva alla Tebaldi «permetti un attimo» dopo il «mais où sont les neiges d’antan», e le mezze stagioni perdute come i distacchi d’eleganza, le sue pronunce, lo sfarfallio stilistico su pagina e nell’aria.

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Marco Ciriello

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