Racconti del Coronavirus. La Minaccia, gli uomini e il Grande Elevato

In un anno del futuro anteriore ancora tutto da scrivere, ma in un giorno ben preciso del calendario gregoriano e in un luogo esattamente conosciuto dai testimoni, successe questo: che degli uomini rinchiusi da mesi nelle profondità di un bunker antiaereo, si trovarono a vivere un’emozione intensa: un’emozione umana. Un’esperienza di vita autentica.

Come fossero finiti lì, nessuno lo ricorda esattamente. Erano circa quattrocento, tutti maschi e in buona salute: dei lavoratori umili con un grado d’istruzione non elevato. Persone semplici. Ma quasi tutti con il crocifisso al collo. 

Qualcuno ricorda ancora oggi che a un certo punto della storia umana si parlò di un’epidemia terribile. Poi si cominciò a parlare di ricchezza e di povertà. Poi ancora di una minaccia che veniva da fuori. Dall’Est, dal Nord, dai popoli del Mare. Dagli aerei. Qualche giornale tirò in ballo le forze aliene (e nessuno li smentì). 

Alcuni scienziati parlarono chiaramente di una nuova razza pronta a colpire senza pietà: gli Uomini dematerializzati: invisibili, intelligenti, rabbiosi e letali. Le organizzazioni internazionali suggerirono un nome atroce: quello delle Entità quantiche. I saggi delle montagne preferirono parlare più semplicemente di demoni: la prova provata che i demoni esistessero davvero. 

Nessuno mai, tuttavia, riuscì a vederli.  

La popolazione mondiale intanto aveva paura. Polizia, carabinieri e i guardiani No-vox (ovvero i miliziani di quella Rivoluzione che un giorno di marzo ormai lontano mise fine all’Avidità delle antiche certezze) prima giravano con le mascherine al volto, poi coi guanti in nitrile; e infine sostituiti da militari con delle tute mai viste, che non facevano vedere neanche un lembo di pelle. Non avevano i fucili, ma non erano affatto disarmati: avevano invece armi nuove. Nuovissime. Terribili. 

Al vertice di tutto c’era il Grande elevato, colui che al popolo si presentò come il Garante supremo dei Canoni della nuova umanità. Fu eletto, e sempre riconfermato, all’unanimità dall’Assemblea degli unici, organismo che produceva quotidianamente migliaia di documenti dettagliatissimi finalizzati all’Igiene delle relazioni individuali e al controllo del linguaggio.

Il Grande elevato era l’unico autorizzato a parlare. Ma lo faceva con scienza, gradualità, educazione. Un giorno decise che nessuno avrebbe dovuto più andare nei luoghi di aggregazione. Il giorno dopo che le lezioni a scuola erano sospese. Poi arrivarono le messe in streaming, le palestre chiuse, le partite di calcio, i negozi chiusi, le tratte autostradali interdette. Infine l’amore. Sospeso anche quello.  

Ogni volta diceva che le misure prese non bastavano, ma che «ce l’avremmo comunque fatta». Tutti lo applaudivano. E in poche settimana ogni individuo censito rimase chiuso in casa, mentre i No-vox erano gli unici a girare tra le strade perché impegnati nella distribuzione di derrate alimentari e farmaci.  

A un certo punto furono fissate anche le regole per la Buona convivenza domestica. Vietati i letti matrimoniali, i divani. Vietati pranzi e cene. Di fatto si doveva rimanere confinati nelle proprie stanze, armati di Canoni, un set di strumenti igienizzanti, dei tab e dei vassoi di cibo con diete personalizzate e somministrate dagli uffici preposti. I tecnici delle agenzie territoriali furono obbligati ad andare in ogni domicilio a stabilire dei protocolli ferrei per l’utilizzo individuale dei bagni di casa.

Un giorno cambiò tutto. Con dolore fu annunciato che neanche quelle misure fossero più sufficienti a contenere la Minaccia. Tuttavia fu ripetuto che «ce l’avremmo fatta». Alle donne fu detto di rimanere a casa. I bambini mandati nei cosiddetti Parchi della Correttezza (luoghi per lo studio, l’igiene personale e la buona educazione dei sentimenti). Gli uomini furono fatti radunare prima negli stadi (da tempo inutilizzati) e poi inviati, secondo i criteri di una razionalità maniacale, in luoghi disinfettati. 

Furono riscoperti quei rifuggi antiaereo pensati per i bombardamenti di quella guerra che secoli prima aveva sconvolto il mondo per motivi non più conosciuti. I manuali la chiamavano la Guerra dei Belli contro i Brutti. Poche righe, nulla di più. Sappiamo solo che esplose circa vent’anni dopo la Guerra dei Buoni contro i Cattivi. Di quella stagione restavano tuttavia ancora oggi delle insuperate ed efficaci opere d’ingegneria umana scavate nella pietra.

Lì dentro c’era proprio di tutto. Cibo, servizi igienici, letti comodi e sterili. C’erano cartelli ovunque che spiegavano nel dettaglio come comportarsi in qualsiasi tipo di situazione. C’era anche da lavorare. Per sei ore al giorno, tutti dovevano cucire dei guanti in pelle nera da indossare fino alle spalle. Dicevano che fossero uno strumento fondamentale per sconfiggere la Minaccia dematerializzata. 

Tutto in massimo ordine, massima pulizia. Ma non c’erano calendari, quadri, né orologi. La luce era bassissima. Si stava quasi al buio. Nelle ore di non lavoro, si stava tutti seduti ai lati dei lunghi corridoi senza parlare. Sembravano i vagoni di metropolitane infinite. Nessuno lo diceva apertamente, ma sembrava che lo scopo di tutto ciò fosse quello di annoiare chiunque fino alla morte. 

Qualcuno morì davvero. E a ogni dipartita la pesantezza aumentava, perché si temeva che la minaccia dematerializzata avesse penetrato il bunker. 

Nessuno smentiva e nessuno confermava. 

Come fu e come non fu, il Professore prese un giorno un’iniziativa inaspettata. Lo chiamavano così benché non avesse mai insegnato alcunché. Faceva altro e lo faceva con dignità. Aveva però una memoria di ferro. Dai cinque anni di età, teneva a mente tutti i risultati delle principali competizioni sportive nazionali e internazionali (formazioni, gol, sostituzioni, etc); ricordava tutte le percentuali delle tornate elettorali che avevano attraversato da Nord a Sud il Paese (già, perché in un modo o nell’altro, la Rivoluzione imponeva tornate elettorali semestrali de effettuare in rete, ma prevedeva pure dei Sistemi Canonici d’igiene elettorale per sterilizzare il pericoloso ritorno delle Antiche derive). Tutte, eccetto le consultazioni per le elezioni dei sindaci delle città sotto i 15mila abitanti. Ricordava anche tutti i nomi dei santi e le rispettive ricorrenze nel antico calendario liturgico della Chiesa di Roma.

Manco avesse un timer incorporato, dopo molti mesi rinchiuso lì dentro, alle sei esatte del mattino del 4 febbraio, scattò in piedi e cominciò a intonare un canto solenne: «Inneggiamo alla martire invitta, risplendente di luce divina. Inneggiamo alla grande eroina…»

Pian piano tutto riconobbero quell’inno come proprio. Senza sapere esattamente quale fosse e perché appartenesse in qualche modo a tutti loro, si alzarono in piedi e cantarono. Cantarono per circa venti minuti. Cantarono più e più volte la stessa strofa. Cantarono e cantarono. Tanto che l’intonaco delle pareti cominciò a sgretolarsi e cadere come neve sugli abiti sterili. Al quinto minuto cominciò a suonare una sirena. E allora cantarono sempre più forte. Alle fine, si trovarono tutti senza fiato. Si abbracciarono tutti, nonostante i divieti. E si riscoprirono fratelli. 

Il viso del Professore era carico di lacrime. E intanto diceva: «La vera festa è domani, la vera festa è domani». Gli altri non capivano, ma lo abbracciavano. E lo abbracciavano ancora. Perché credevano che quello fosse un grido di battaglia. Tutti fieri, tutti carichi. Illuminati da una nuova speranza. Senza sapere tuttavia quale.

Proprio in quel momento, la grande porta d’acciaio si aprì. Il rumore fu tremendamente forte e stridulo. I No-Vox erano schierati: pronti ad entrare e sterilizzare i sentimenti. Si era aperta una crepa. Appunto perché quegli uomini intuirono che i Codici non servissero più a difenderli e che la Minaccia dovesse essere sconfitta a mani nude. 

Cosa successe in quel giorno di febbraio, in quella precisa città, non serve saperlo. Non ora, almeno. E neanche che fine fece il Professore. Soltanto una cosa si può anticipare: che tutto ebbe inizio da un canto. Un canto di uomini che si scoprirono liberi senza neanche sapere cosa fosse esattamente la libertà. Parola che nessuno pronunciava più. Da anni e anni. 

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Fernando M. Adonia

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