Cultura (di P. Isotta). A 500 anni dalla morte di Raffaello, il Beethoven dell’arte

La precoce morte di Raffaello, cinquecento anni fa (1520), è una delle massime sventure dell’arte: come quelle di Catullo, di Giorgione, di  Mozart, di Schubert, di Bellini. Io non so se e come il genio di Raffaello e di Mozart si sarebbe ulteriormente sviluppato: le opere che lasciano ne danno una testimonianza completa. Ai funerali di Schubert, invece, Grillparzer tenne un discorso con le commoventi e terribili parole: “Questa tomba contiene un ricchissimo tesoro e ancor più ricche speranze.”

A riflettere, se si può, sul senso dell’arte di Raffaello, torna un ricorrente interrogativo. Il genio è inspiegabile; la grandezza è più intuibile che definibile: ma un artista va valutato alla stregua dell’analisi dello stile e delle circostanze storiche onde sorge e si afferma. È possibile, insieme, mettere da banda il Zeitgeist (lo spirito del tempo), e dare un’interpretazione metastorica dell’ethos e dello stile? Esistono categorie stilistiche assolute, a prescindere dalle circostanze storiche? Esiste un Classico assoluto, un Barocco assoluto? Mario Praz mi ha insegnato che anche tale metodo di analisi è possibile, pur se rischioso per la facilità con la quale può finire in mano ai ciarlatani.

Ciò vale quale presupposto per tentar d’indagare le affinità metastoriche fra l’arte della figura e la musica. È ricorrente il parallelo: Raffaello è il Mozart della pittura, Michelangelo il Beethoven della pittura e della scultura. Ciò si afferma sin dal Romanticismo francese, da Balzac, a volte da Stendhal. (Sempre che Raffaello non venga, a volte, considerato l’analogo di Pergolesi o Cimarosa…) Arthur de Gobinaeu, se dimentichiamo il libro sull’inegualità delle razze, è un grande narratore e un fine pensatore. Nel mirabile romanzo-saggio La Renaissance, Il Rinascimento, egli immagina il pianto di Michelangelo alla morte del più giovane genio, e gli fa affermare addirittura di sentirne la superiorità rispetto a lui, destinato a tanto sopravvivergli. Or, Beethoven è l’essenza stessa del Classico insieme con il presagio di un suo superamento; e la sua arte non è solo monumentale e sintetica, è piena di delicatezze che trovi soprattutto nella Sonate e nei Quartetti, oltre che in alcuni tempi di Sinfonia, come il secondo della Quarta. Un’interpretazione strettamente storica porta a legarlo a David, ad Appiani, a Canova: Classico e Neoclassico convivono. Se si pensa che l’arte di Michelangelo contiene pur essa delicatezze infinite, il parallelo con Beethoven pare innegabile. Io tuttavia accosterei l’autore della Cappella Sistina ancor più al sommo Haydn delle opere successive alla morte di Mozart, La Creazione, Le Stagioni, le ultime Messe, ove alla grandiosità classica si aggiunge uno spirito panteista che il compositore in se stesso ignorava e che di Beethoven è proprio.

Raffaello è pur egli l’essenza stessa del Classico, con una fermezza e una consapevolezza superiori a quelle di Mozart. Certo, gli si debbono delicatezze oniriche mozartiane, come tante sue Madonne. Ma di fronte alla grandiosità, alla sintesi, alla profondità di pensiero e di cultura, di opere come La scuola di Atene e le Stanze, io continuo a restare senza fiato, come di fronte alla Missa solemnis: e penso che mai la pittura abbia più raggiunto tali vertici. Il Beethoven della figura è soprattutto Raffaello.

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*Da Il Fatto Quotidiano del 26.01.2020

Paolo Isotta*

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