Sondaggi, opinioni, analisi, commenti, dibattiti, saggi, speciali tv si susseguono senza sosta da anni per affrontare e spiegare il malessere dell’uomo occidentale, il significato del caos che attanaglia la civiltà europea e in particolare delle giovani generazioni che sembrano non averre più motivazioni per vivere, spinte ed emozioni per costruirsi un futuro o per partecipare alla vita sociale. Sociologi, teologi, filosofi, politologi si affannano di volta in volta a cercare definizioni o sviscerare i fenomeni più recenti della società per offrire una diagnosi e individuare una soluzione. Nulla. Nell’ambito della destra intellettuale, quella che pensa, produce e rifiuta etichette, c’è uno scrittore, a tratti reazionario, che ha fornito le indicazioni e le analisi più penetranti per capire la crisi del nostro tempo e il vuoto degli uomini occidentali: Michel Houellebecq.
Abbandonato dalla madre a cinque anni, allevato dalla nonna dalla quale ha preso il cognome d’arte Houellebecq, Michel (Michel Thomas il vero nome) sin dall’infanzia, e soprattutto durante la giovinezza, ha dovuto fare i conti con la depressione trasformatasi in odio verso una società che nulla ha più da dire, una società che vive in una postmodernità priva di slanci, di amor proprio. Da adulto medita il suicidio nella solitudine in cui vive.
Il filo rosso che collega tutte le opere dello scrittore francese è il parlar schietto, con uno stile letterario fin troppo chiaro quando deve attaccare la decadenza francese, quando deve accusare l’Islam di voler sottomettere la Francia e la civiltà occidentale e quando, sullo stile degli autori sui quali afferma di essersi formato, primi fra tutti Nietzsche e Céline, lancia anatemi, accuse, e osservazioni nichiliste, affilate come un’arma, contro la postmodernità. E lo fa con toni ed espressioni che si sono rivelati profetici (si vedano i riferimenti all’Islam, all’ingegneria genetica, alla solitudine dell’uomo contemporaneo, che ricorda un po’ Camus), raccontando bene la quotidianità, sia che si tratti dell’amore triste, negato, che non concede la pienezza della vita, sia di opinioni non politicamente corrette definite, spesso, reazionarie. Tutto scritto con una prosa a volte volutamente sciatta e lacerata da inserti saggistici.
Emerge un Houellebecq sfuggente, soprattutto con se stesso ma non ha trascurato di fare incursioni in tutti i generi: poesia, romanzo, saggio ma anche cinema, come nel caso de La possibilità di un’isola; nella musica dove ha cantato suoi testi e nell’arte, come artista o come “modello”. Si potrebbe dire che si è espresso in tutte le forme possibili. Ma è particolarmente interessante il racconto dell’autore, le testimonianze e i saggi di amici, colleghi, critici sull’autore prima del 1991 (anno del primo successo), gli anni dell’inizio, quando Houellebecq era essenzialmente un poeta, cui seguirono le collaborazioni su fanzine e riviste, i romanzi, riviste patinate fino al cinema, la musica, l’arte. Insomma, laddove c’è da intervenire, lui c’è. Per dirla tutta su questa società che lo scrittore francese non ama.