Cultura. Un’agenda per l’educazione: idee per affrontare l’emergenza formativa

“Agenda” significa “cose da fare”. “Avere un’agenda” vuol dire “sapere che cosa c’è da fare”. In ogni ambito della politica è fondamentale avere un’agenda, il che equivale ad avere un progetto adeguatamente specificato in una serie razionale di tappe che conducono alla realizzazione di uno scopo. In ogni campo ciò è essenziale, ma la rilevanza dell’agenda è proporzionale all’urgenza dello scopo. Che una determinata azione politica avente un fine sia pianificata e realizzata mediante una serie di deliberazioni ad hoc dipende da quanto ne sia avvertita l’improcrastinabilità. Una decisione si prende anzitutto perché non se ne può fare a meno. Così è per l’ambito dell’educazione, da più parti indicato come un settore della società in grave crisi. È una crisi in grado di trascinare con sé l’intera vita civile che dall’educazione è fortemente influenzata. Dunque l’educazione richiede di intervenire e lo fa tanto più quanto è di un’evidenza solare il fallimento ripetuto e drammatico dei precedenti interventi. Certo non poteva essere altrimenti, visto la direzione che essi hanno assunto. Infatti si è creduto che il problema fosse da un lato l’aumento statistico dei diplomati e laureati, dall’altro la misurazione delle istituzioni del mondo dell’istruzione non sul dover essere, cioè sulla loro finalità culturale, bensì sull’essere, cioè sui bisogni, i desideri e la forma mentis degli utenti. Non l’educazione che plasma la società, ma la società che contamina l’educazione: ecco l’inversione. Perciò non si è trattato di aumentare l’efficacia dei processi di apprendimento e di ricerca, ma di renderli il più possibile accessibili. Bisognava ridurre la quantità di sforzo necessaria alla loro acquisizione fino a limitare la sfera dei contenuti allo strettissimo necessario, cioè alla vita lavorativa. Ecco allora emergere una certa vocazione praticistica della scuola che declassa la cultura a competenza. Così si onora la logica dell’utile e dell’economico, non come una delle componenti della formazione – in sé non disprezzabile – ma come  il suo criterio fondamentale. Le cattedre di pedagogia che respirano aria anglosassone hanno entusiasticamente accolto e propagandato questo orientamento. Vi hanno intravisto un mezzo di “inclusione” e democratizzazione dell’insegnamento. Lo stile liberal è quello dei diritti e delle “educazioni”: sembra che crescere per un certo mondo politico-ideologico sia imparare a rivendicare da qualcun altro ciò che non si è capaci di diventare. Il mondo della scuola deve insegnare i diritti, perché tutto il resto (sforzo, impegno e studio) è tremendamente esclusivo. Insieme ai diritti si devono insegnare le “educazioni”: alla cittadinanza, alla convivenza, alla non-violenza, alla pace, alla mondialità, alla parità di genere, all’affettività, alla sessualità, alla circolazione stradale, alla buona alimentazione… Importante è impartire dogmi indiscutibili che generano un mondo a misura di qualche ingegnere sociale e di qualche filantropo miliardario. Ma questo è ovviamente un mondo del tutto discutibile, fatto di valori e stili che non sono tali, fatto di procedure e criteri  funzionali agli interessi di un potere che, mediante l’uniformità sociale, perpetua se stesso. Vittime della decadenza dell’educazione al livello dell’imbonimento commerciale sono coloro che più ne hanno bisogno: i poveri. I ricchi cadono in piedi: se non apprendono a scuola troveranno altri modi, non ultimo la possibilità di parassitare i patrimoni familiari. Gli altri no: devono farsi avanti facendo vedere che sono bravi. E qualcuno deve insegnare loro ad esserlo. Si devono distinguere. A loro non piace che qualcuno imponga l’eguaglianza, quel monstrum che tutto rende omogeneo e dal quale nulla può emergere che non sia l’avere. Ma i poveri per avere devono essere, ed essendo si accorgeranno che l’avere non è l’unico valore. Però hanno bisogno di un’eutychìa: il buon fato, un certo benessere, diceva Aristotele, è la condizione per fare filosofia. Diremmo che la sfera dello spirito come stile di vita per lo più diventa accessibile a chi ha risolto il problema del pranzo e della cena. Quindi siamo in un circolo virtuoso: la cultura, la conoscenza sono un ascensore sociale che genera cultura e conoscenza: bìos teoretikòs, vita teoretica … cioè, per dirla in linguaggio contemporaneo, una qualità della vita. Che cosa si può pretendere dagli altri? Solo che il patrimonio dei nostri padri non rimanga un tesoro geloso, solo quella charitas della trasmissione in vista di una qualità della vita. Altro che l’ignorante e presuntuoso disprezzo dei pedagoghi per l’insegnamento “trasmissivo”! Noi possiamo solo trasmettere: nulla si crea, nulla si distrugge tutto si trasmette. Trasmettere è tutto ciò che possiamo fare a favore dei ragazzi, perché abbiano a disposizione una piattaforma di lancio per la loro creatività. Quindi l’unico loro diritto è di ricevere quello che anche noi abbiamo ricevuto: un orizzonte di senso sul quale costruire vite sensate, qualitativamente degne. In un libro si è parlato di tutto questo (AaVv., Contro Corrente. Saggi contro la deriva antropologica. Vol. 7: educazione (un progetto antipedagogico, cfr. https://www.amazon.it/Contro-Corrente-antropologica-Educazione-antipedagogico/dp/1697525911). Una semplice voce per dire che qualcosa si muove e bisogna lavorare perché simili questioni, vitali per il nostro mondo, divengano agenda. L’insoddisfazione e la percezione della crisi possono divenire occasione per da noi, come altrove, le voci del dissenso culturale diffondano l’idea che un’altra strada è possibile. La politica, tornando nobile arte, può assumersene la responsabilità e impegnarsi nell’unica impresa in cui la sua grandezza e quella dell’educazione si incontrano: costruire il futuro.

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Massimo Maraviglia

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