Cultura. Il debito di D’Annunzio verso Carducci (che gli indicò la rotta della poesia patriottica)

Gabriele D'Annunzio

Giosuè Carducci e Gabriele D’Annunzio

«Compensare lo squallore dell’Italia da poco unificata con una retorica portatrice […] di lustro e prestigio» (1): questo il convincimento ideale di Giosuè Carducci, poeta vate, è noto, ma al contempo democratico-radicale con empito repubblicano e libertario alla Hugo o alla Michelet che dir si voglia. 

Ben cosciente dell’arduo compito che si profilava ai tempi suoi: dare all’Italia che sorgeva una dignità agli occhi dei Paesi e delle culture europee già formate e nei cui riguardi la nostra storia millenaria non poteva essere sminuita. A Fucecchio – durante un banchetto per Giuseppe Montanelli – Carducci fu esplicito in tal senso: «Bisogna cavar di testa all’Europa che l’Italia sia un mercato di ciancie, che l’italiano sia un popolo il quale non crede in nulla, non in sé, non nelle sue forze, non nel suo avvenire. Tutt’altro». Era il 19 luglio 1892 e il poeta, tra gli applausi degli astanti, proseguiva: «In Italia i grandi caratteri che sono gli Dei termini della storia nazionale sono tutti caratteri di fede. Per  noi la fede della religione si chiama Dante Alighieri; la fede dell’avventura si chiama Cristoforo Colombo; la fede dell’arte si chiama Michelangelo Buonarroti; la fede della scienza si chiama Galileo Galilei; la fede della politica si chiama Giuseppe Mazzini» (2).

Tradotto in prosa, l’epico intervento del vate maremmano era un monito generato dalla convinzione che ogni popolo, per intraprendere con successo l’emancipazione e il progresso, avesse bisogno in primis di conoscere le radici culturali alla base della sua civiltà: a letterati, artisti, filosofi spettava il compito divino di vaticinare, interpretare il tempo presente e quello futuro alla luce degli insegnamenti del passato; un passato che non si ripete in senso vichiano poiché si trasforma in un “tempo” che ha bisogno di uomini colti capaci di leggerlo in funzione dei problemi dell’oggi.

La «redenzione attraverso i profeti» (3) preconizzata dal Carducci sarà poi sviluppata da Gabriele D’Annunzio. Nella sua concezione l’arte diventa la suprema espressione di vitalismo creativo che rende l’artista un “superuomo”, un demiurgo di un universo sociale ed etico ove arte e politica si fondono in una sintesi di potenza e bellezza. Inarrivabile, dunque, per il meschino livello delle istituzioni pubbliche e private poste in essere dall’ordine costituito. Era passato qualche anno, era il 1900 e, ne Il Fuoco, D’Annunzio riprendeva l’incipit carducciano alla costruzione di una civil-religion italiana degna del suo passato: «Le fortune dell’Italia sono inseparabili dal destino della bellezza, delle quali essa è la madre».

L’idea di un’Italia che non potesse accontentarsi solo di “essere fatta” dal frettoloso processo risorgimentale ma che dovesse mirare a «positive attese di imminente grandezza» aveva già portato Carducci a condannare l’emergente trasformismo della “Bisanzio” parlamentare e partitica romana (4). 

E’ questo il debito più rilevante rinvenibile nell’opera letteraria dannunziana verso quella carducciana. La prima, tra l’altro, a individuare la differenza – tuttora ricorrente nei dibattiti politici –, tra il paese “legale” e “reale”: «Oltre i termini troppo angusti […] del paese legale esiste il paese reale che non può sopportare di vedere ingannate e turbate le sue aspirazioni da combinazioni ibride e immorali; il paese reale che ha il diritto di ricordare ai deputati che nel piccolo Montecitorio non si deve dimenticare e disconoscere l’Italia, la quale al di fuori guarda, attende e giudica» (5).

In Carducci, infatti, il poeta vate ed il carisma da esso originatosi risulta già connesso al problema della formazione di un’italiano “nuovo” che rinnova il modello derivato, a sua volta, dall’Alfieri. In D’Annunzio e soprattutto con D’Annunzio si fa un ulteriore passo in questa direzione: la liberazione degli italiani dalle mediocri aspirazioni delle loro élite politiche deve inevitabilmente passare per il coinvolgimento di massa del corpo sociale, ossia del “paese reale” a cui faceva riferimento – e appello – proprio Carducci. Qui sono rinvenibili le radici del “volo viennese” o dell’avventura fiumana della quale quest’anno in molti hanno ricordato il “centenario”.

A Fiume, infatti – come evidenziò anche Renzo De Felice –, non è il “vate” a infiammare gli spiriti delle folle, bensì il “soldato”, il “comandante” insomma, seguito in virtù di tale ruolo dai legionari, sensibili molto più alla sua figura di eroe e patriota che a quella di letterato (6).

E’ dunque il mito carducciano del poeta vate che in D’Annunzio si trasfigura in quello del “poeta-soldato” pronto ad offrirsi ad un pubblico sempre più vasto e pronto a trasformare l’ammirazione letteraria in consenso politico che, infatti, sempre mancò al Carducci. Nulla da togliere al prode e all’ardito D’Annunzio, anzi. Ma delle tante ciarle fatte intorno alle sue imprese in questi mesi un giusto riconoscimento a chi quella strada aveva coraggiosamente preparato pare dovuto poiché «nulla di una grande stirpe vivente può cessare di vivere […] Ogni cosa antica d’Italia in me vive, in me si compone, da me si esprime» (7). Lo scriveva D’Annunzio nel 1923 e a fare un tal torto al Poeta, per giunta di questi tempi, proprio non ce la sentiamo. 

***

1) A. Battistini, E Raimondi, Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura Italiana, vol. III, t. I, Torino, Einaudi, 1984, p. 237.

2) G. Carducci, Fede è sostanza di cosa sperata, in «Tribuna», 21 luglio 1892.

3) G.L. Mosse, Sessualità e nazionalismo, mentalità borghese e rispettabilità, Bari, Laterza, 1984, p. 66.

4) W. Binni, Carducci politico, in Carducci e altri saggi, Torino, Einaudi, 1960, pp. 84-85.

5) G. Carducci, Il Paese: manifesto di una rassegna settimanale, 28 febbraio 1879.

7) R. De Felice, D’Annunzio politico, 1918-1938, Bari, Laterza, 1978, p. 152.

8) G. D’Annunzio, Per l’Italia agli Italiani, Milano, Bottega di Poesia, 1923, p. 150-151.

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Roberto Bonuglia

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