Il commento. Da De André a Dalla: i cantautori e l’impegno come questione di stile

Faber Fabrizio De André
Faber Fabrizio De André

Molti di loro si sono ritrovati con testi di canzoni sulle antologie. Parlare di categoria è riduttivo perché si tratta di singolarità spesso poliedriche e risulterebbe ingiusto omologarli. In alcuni di loro però l’omologazione diventa quasi una chiave di lettura per comprenderli meglio. È indubbio che i cantautori negli anni settanta abbiano contribuito ad allargare le vedute culturali e, in maniera altrettanto camaleontica, hanno assecondato il riflusso degli ottanta e dei decenni successivi, producendo in molti casi ed in entrambe le epoche prodotti di indiscutibile valore (si pensi a De André, Lucio Dalla e, perché no, anche al mistico Claudio Rocchi). Il raccontare il mondo, tramite la canzone di denuncia ha un valore altrettanto indiscutibile, ci mancherebbe, l’arte ha anche questa funzione.

Nel caso della scuola cantautorale nostrana però, sembra essere diventa una consolidata maniera per scrivere canzoni, piuttosto che una reale esigenza artistica. Quando si tratta di ricordare la caratura del loro impegno sociale, diversi cantautori scaldati dal vento degli anni settanta sembrano oggi affermare, con un certo pudore, che i tempi erano quelli ed il contesto lo imponeva, ma trascorsa la stagione le cose da dire sono finite e hanno dovuto gioco forza ripiegare sulle faccende quotidiane. Ci può stare, ogni tempo ha le sue logiche. Risulta però stucchevole quando gli anni settanta diventano una questione di stile, perché, come diceva Fossati: “ah, che disgrazia le questioni di stile”

Non tutto quello che resta del cantautorato italiano è stato fagocitato dai mutamenti storici e anagrafici di chi prende parte e fa parte di questa scena. Qualcosa è ancora presente, qualche brandello, qualche flebile battito. Certo è però, che a vincere, sembra essere un incessante e martellante utilizzo di una determinata retorica civilistica e politicamente corretta. I temi sono quelli inscritti nella tradizione del cantautorato: la denuncia sociale, il languore tardoromantico, le nostalgie sessantottine, la retorica autocelebrativa di chi si sente sopravvissuto a battaglie intellettuali e culturali valide per un paio di stagioni poi subito sotterrate per schivare più velocemente le polemiche prodotte dall’egemonia culturale del momento. Il contesto sforna e fabbrica prodotti musicalmente e stilisticamente anche buoni, con testi ricercati ed evocativi benché il vulnus non riguardi i singoli artisti nello specifico. Non si tratta di una tendenza ascrivibile sempre a quel personalismo narcisistico che molti dei nostri artisti spesso sfoderano; sembra piuttosto un eco del cantautorato storico, quasi esistesse un’aura che spinge i cantautori medesimi a centrare il loro discorso sull’impartire la lezione del momento con lo stesso spirito di allora, ergendosi dal pulpito a cui sentono di appartenere.

Il punto è proprio questo: il senso della musica d’autore è quello di trasmettere contenuti in maniera didascalica e pedagogica, oscurati a loro volta dall’ego degli artisti oppure deve lasciare spazio alla capacità di incidere sul piano emotivo ed intellettuale di chi ascolta e di chi crea, effetto desiderabile scaturito da ogni opera d’arte che si rispetti? È davvero obbligatorio copiare e incollare lo spirito degli anni settanta, senza convinzione, per questioni di stile?

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Stefano Sacchetti

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