La lettera. Isotta a Dagospia: “Muti, il Teatro alla Scala di Milano e le leggende contro di me”

I palchi del Teatro alla Scala di Milano

Caro Roberto,

la lunga ricostruzione “di fantasia” sull’affare della Scala, che oggi occupa una grande porzione di Dagospia, mi nomina ripetutamente. Vorrei dunque precisare qualcosa per ciò che mi concerne.

Riccardo Muti. Sono stato a lungo il suo “aedo”. È vero; pur se il sostantivo mi pare enfatico. Si tratta di uno dei più grandi direttori d’orchestra viventi; a Milano veniva attaccato solo perché non era parte del clan Abbado. Nei lunghi anni alla Scala ha fatto cose meravigliose, cose non meravigliose e pure cose pessime. Non gli ho fatto sconti. Che poi i nostri rapporti si siano deteriorati, è vero. Ma non è un fatto comico come racconta il tuo scrittore. Non è stato certo facile per me rompere un’amicizia (sia pure a senso unico) con chi, più anziano di me, aveva studiato a Napoli con i miei stessi Maestri, aveva ricevuto un’analoga educazione, e aveva in parte lo stesso sentire musicale. Ma c’è stata la faccenda della distruzione dell’acustica del San Carlo, fatta da Nastasi, che sovvenzionava il ridicolo festival di Ravenna della moglie di Muti: il quale gli è stato complice. C’è stata la faccenda dell’Anfiteatro di Pompei, distrutto dal cemento, e che egli ha nondimeno voluto inaugurare. C’è poi una faccenda di gestione familiare delle cose musicali, che già alla Scala si palesava in tutta la sua miseria, e che io ho colto in ritardo.

Veniamo alle mie “intemperanze”. Che io abbia insolentito una direttrice sul podio è una leggenda fatta circolare ad arte, come pure quella che io abbia preso a schiaffi Rubens Tedeschi, anziano critico musicale dell’”Unità”, col quale sono stato amico per decenni. Sono napoletano, e i miei genitori mi hanno dato una grande educazione.  Che poi De Bortoli, a corrente alternata, mi odiasse e mi amasse, e più volte, in modo più o meno stupidamente surrettizio, abbia tentato o di cacciarmi o di indurmi alle dimissioni, è vero. Ma era una preoccupazione sua, non mia. Io sono restato sempre fermo, e dei miei errori ho dato il più ampio conto sempre, anche nel mio libro di memorie La virtù dell’elefante, che a te tanto piace. E con De Bortoli sono restato amico.

Quanto al resto, non commento perché da quattro anni la vita musicale attuale m’importa meno di zero. Sarei più prudente nel valutare così bene il soprintendente di Roma Fuortes: uno dei tanti cloni di Nastasi, non diverso da Lissner, con quella faccia da levantino furbastro e i capelli tinti. Mah! E la storia della società di “cacciatori di teste”, che lo ha designato (quasi si trattasse di scegliere il capo del personale di un’azienda di calcestruzzo) non gli fa certo onore.

Satis.

Grazie dell’ospitalità e un abbraccio.

Paolo Isotta

*Pubblicata su Dagospia il 20.06.2019

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