Cultura (di P. Isotta). “La morte di Penelope”, un gioiello pascoliano con lo sfondo di Itaca

Lo maggior corno della fiamma antica / cominciò a crollarsi mormorando, / pur come quella cui vento affatica… È il Ventiseiesimo dell’Inferno di Dante. Ulisse, consigliere fraudolento, è giustamente condannato alla pena eterna. Ma il Poeta lo dipinge come uno spirito d’inesausta sete di conoscenza: dice de l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore. Fra tutte le narrazioni di Ulisse dopo il ritorno a Itaca e la vendetta sui Proci, è la più famosa. Dante gli attribuisce una nobiltà spirituale non giustificata né dall’Iliade né dall’Eneide. Ma quanti Odissei esistono?  Altra cosa, infatti,  è l’Odissea: ove scopriamo le pieghe psicologiche sottilissime d’un aspro e crudele orditore di frodi. Qui egli peregrina nella nostalgia della casa e della sposa; pensa al figlio, pensa alla terra, al trono. La sofferenza lo rende sapiente. Il suo animo duro si commuove quando si vede riconosciuto dal cane Argo, che l’ha atteso vent’anni: questi, giacente su di un mucchio di letame, coperto di zecche, muore nel vederlo. Per l’unica volta in vita sua, Ulisse perde due lacrime che gli discendono dall’occhio.

Il capolavoro dedicato al destino finale di Ulisse è il più monumentale dei Poemi conviviali di Pascoli, e s’intitola L’ultimo viaggio. Il re di Itaca giunge morto sulla spiaggia di Calypso, e viene pianto dalla maga che l’aveva irretito ed egli aveva abbandonata.  Ella è immortale; pure commenta che il non esser nati è il bene supremo. Un altro mito vuole ch’egli fosse ucciso da Telegono, il figlio da lui avuto da Circe. La vedova Penelope dovrà sposarlo come Telemaco Circe; e ne deriverà Italo, il capostipite degli abitanti dell’Italia, ovvero, altra interpretazione, la stirpe etrusca. I troppi, e troppo diversi, Ulisse sono uno dei punti di forza dei creatori della “questione omerica”. Coloro che, a partire dal Settecento, smembrano L’Iliade e l’Odissea come un’accozzaglia casuale di poemi diversi raffazzonati in modo contraddittorio. Si nega non solo l’identità del sublime Poeta, si nega che i due poemi sortano dalla stessa mano, si tormenta il testo alla ricerca di contraddizioni e zeppe metriche. Ormai acqua passata; o almeno lo spero. Un geniale, piccolo libro di Enzo Mandruzzato, dove immensa dottrina è nascosta nella semplicità del racconto, smonta gli smontatori: Omero. Il racconto del mito (1998). Lo consiglio a tutti.

Quando Ulisse torna a Itaca e organizza la vendetta e la strage, il racconto dell’Odissea è precisissimo. Non è possibile equivocare una sillaba. Ma possibile è far nascere arte dall’arte, con l’arte della metamorfosi poetica? Certo. Già lo fece, in un mirabile racconto, Gli uomini chiari, Renzo Rosso: la storia è vista da parte dell’aedo Femio, innocente, costretto a cantare per i Proci che occupano la reggia di Ulisse e vogliono Penelope e il regno. Rosso lo fa massacrare cogli altri. Penelope con intatta fedeltà attende da vent’anni lo sposo. Nonostante la minuzia del racconto, persino  Omero sulla bellissima regina appare reticente. La sappiamo solo sdegnosa del corteggiamento; e il più possibile chiusa nel suo appartamento sito al piano alto, donde governa la casa con le poche ancelle restategli fedeli e la saggia Euriclea, che di Ulisse fu nutrice.

Ricordo una cosa ovvia. Nel mondo antico, e vieppiù in quello arcaico di Omero, la parola era rara. Non si chiacchierava; ai conviti si discorreva, e solo fra uomini. Alle donne si addiceva il tacere. E anche per gli uomini, una parola aveva un peso quasi sacrale che noi oggi a stento comprendiamo.

Ecco la premessa per leggere una piccola meraviglia letteraria che esce in questi giorni per la Marsilio (pp. 95, euro 11): La morte di Penelope, di Maria Grazia Ciani. L’Autrice è un’insigne grecista, alla quale dobbiamo delicate insieme e dotte traduzioni dei due poemi omerici. In tali traduzioni la filologia è celata: sono fatte per qualunque lettore. A volte (Odissea) sono preferibili a quelle sapientissime della “Lorenzo Valla”: la quale, peraltro, in tanti anni, non ci ha dato né l’Iliade né il De Rerum Natura, preferendo pubblicare la letteratura cristiana del Medio Evo.  Maria Grazia Ciani scrive una storia fatta tutta di monologi, come in un romanzo del Settecento. Sono monologi interiori: perciò la voce dell’anima può espandersi ben più che se il personaggio parlasse in pubblico. Altera e distante, Penelope in segreto ha smesso di aspettare Ulisse. Vent’anni prima, lo ha visto pochissimo, essendo egli subito partito. Lo ha atteso per anni; poi addirittura spera che sia morto. L’uomo era già da giovane per lei impenetrabile e spaventoso, pur avendole provato il suo amore. Nella folla dei Proci bevitori e approfittatori c’è anche il bellissimo e nobile Antinoo: affatto diverso da come lo descrive il Poeta. I suoi monologi lo mostrano perdutamente innamorato della Regina. La particolare, fin perversa, nobiltà spirituale dei due è un capolavoro poetico della Ciani perché non confligge col fondo arcaico dell’animo loro. Antinoo non ha mai parlato con la Regina, e non l’ha vista in faccia che una volta, ché ella si ricopre di un velo. Quando siede in trono guarda davanti a sé. Pure il loro rapporto, fatto solo di sguardi è intensissimo: più che se l’eros fosse divenuto carnale. Il polytropos Ulisse si nasconde sotto veste di mendico. L’ultima gara è quella dell’arco del Re: solo chi riuscisse a tenderlo, cosa solo a lui concessa, potrebbe avere Penelope. Travestito, Ulisse assiste. Tutti falliscono. Penelope tende per ultimo l’arco al suo Antinoo. Egli lo posa, senza nemmeno tentare il certame. Sa che subito dopo la prima freccia sarà per lui.  Il diabolico polytropos aveva già tutto intuito. “Penelope non si era mossa. Ma il velo, per l’ultima volta, era caduto, e questa volta davanti a Lei non più Antinoo, ma Ulisse la fissava con i suoi profondi, impenetrabili occhi. Lo riconobbe? Non ne ebbe il tempo. L’ultima freccia la colse in pieno petto, la violenza del colpo la piegò all’indietro, la testa abbandonata, le braccia spalancate in un turbinio di veli: per un istante sembrò che stesse per spiccare il volo. Come una rondine.”

Maria Grazia Ciani è l’emula di Pascoli.

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*Da Libero del 17.6.2019

Paolo Isotta*

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