Cultura (di P. Isotta). Da Anassagora a Lucrezio, la grandezza antica della filosofia e della scienza

Continua a circolare la denominazione errata e, a modo suo, diffamatoria di “filosofia presocratica.” Errata, giacché alcuni dei grandi filosofi greci sono contemporanei e non anteriori a Socrate. Del quale Socrate, peraltro, sappiamo solo che venne condannato a morte dalla città di Atene; o, meglio, che provocò la propria condanna per diventare il simbolo del martirio filosofico. Ciò spiega Federico Nietzsche. Diffamatoria, giacché quel “pre” viene accettato come se, dopo Socrate, tutto fosse cambiato e la vera filosofia avesse avuto inizio. In realtà, come tutti sanno, quel che passa sotto il nome di Socrate sono i Dialoghi del sommo Platone, il quale ha attribuito all’amico più anziano un sistema filosofico interamente creato da lui; anche per le influenze ricevute dalla in parte esoterica dottrina di Pitagora. Il fenomeno si ripeté qualche secolo dopo. Paolo di Tarso inventò la figura di un Messia il quale o non era mai esistito oppure era uno dei tanti che ogni settimana si proclamavano tali. Inventò la favola della vita eterna (il miglior esempio di ossimoro, dice il latinista Luigi Spina) e dell’imminente fine del mondo: che sarebbe avvenuta entro la presente generazione. Le sue Epistole, in un greco dialettale e corrotto, crearono una nuova religione ma facevano sorridere di compatimento i veri filosofi dell’epoca.

Platone è un sommo, e il suo pensiero contiene anche delle rivelazioni scientifiche. Quella delle idee innate, puramente metafisica, volta in fisica è oggi attestata dalle più avanzate neuroscienze, e non solo per il DNA. Ma è stato anche una rovina per la filosofia. Impostosi come il filosofo per eccellenza, ha costretto l’Europa ad accettare la scissione fra spirito e materia. La vera realtà è quella ideale, e la nostra ne è solo una copia imperfetta. Il corpo è un carcere nel quale l’anima è ristretta. Da questo a sostenere che il mondo, il corpo, la vita, siano un male, il passo è breve: e l’ha compiuto definitivamente il cristianesimo quando ha tentato di darsi un’impalcatura culturale. San Paolo, infatti, Platone non l’aveva mai sentito nominare, cosi come ogni altro filosofo.

I cosiddetti presocratici erano scienziati. Anassagora, considerato empio, studiava scientificamente la Natura. Parmenide dimostra che dal nulla nulla può sorgere, né alcunchè può tornare nel nulla. Leucippo e Democrito scopersero che l’universo è fatto di particelle minuscole e indivisibili (atomo ciò significa) ruotanti nel vuoto ma non precipitanti all’infinito. Dalla loro composizione e scomposizione tutto nasce e muore. La morte è solo scomposizione di atomi, che si riaggregheranno per l’eternità in diverse forme. L’anima non esiste e muore col corpo. Epicuro approfondisce tale dottrina. E dà luogo al più grande poema filosofico mai scritto, il De rerum natura di Lucrezio, ossia La Natura. Il trionfo del cristianesimo portò alla sistematica distruzione dell’opera. San Girolamo si dedica alla diffamazione di Lucrezio, sostenendo che fosse pazzo per aver assunto un afrodisiaco e che avesse scritto “negl’intervalli della follia”. Per un Dottore della Chiesa un ateo poteva essere solo folle e anima dannata.

Ma una copia ne sopravvisse nell’abbazia di Fulda, e venne rinvenuta da Poggio Bracciolini nel 1418. Circolò manoscritta, poi la si stampò. Sempre nel suo difficillimo latino: l’arduità nasce anche dal fatto che il Poeta dovesse inventarsi un lessico scientifico e filosofico in una lingua che fin allora aveva prodotto poesia teatrale, elegiaca e diritto. Poi si incominciò a stampare. Sempre in latino. I coltissimi prelati atei del Rinascimento se lo leggevano così; e mai la Chiesa pensò di proibire La Natura, giacché la sua intelligenza le faceva comprendere che comprender quel testo era dato a pochissimi. Ma quando il matematico toscano Alessandro Marchetti tradusse il poema in italiano, immediatamente esso venne proibito. Così incomincia la lunga storia delle sue traduzioni. L’ultimo capitolo è di questi giorni e si chiama Roberto Herlitzka.

Nato nel 1937, è il più grande attore italiano. Adesso se ne stanno accorgendo: come sempre succede, non per le cose importanti ma grazie a una deliziosa interpretazione semicomica in un mediocre film di Sorrentino (non ricordo quale dei tanti: in parentesi: Sorrentino, uno ch’era nato talento e che il successo ha reso un routinier piccolo-borghese).  Il grande attore tragico è sempre grande anche nel comico. Me ne accorsi in uno straordinario film surreale del 1983 di Lina Wertmüller, Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada. Recitavano due colossi come Tognazzi e Moschin; lui non era inferiore, nella parte, davvero da lui creata, di un faccendiere meridionale che fa da segretario al ministro dell’Interno democristiano.  Per conoscere Herlitzka occorre vederlo a teatro. Un testo grottesco e tragicissimo venne ridotto da Ruggero Cappuccio dal più tetro romanzo che conosca, Il soccombente di Thomas Bernhard. Herlitzka reggeva due ore di monologo sciorinando tutte le angosce e le nevrosi di un pianista fallito che sa di esserlo. Da brivido. E chi oggi potrebbe interpretare Re Lear meglio di lui? O Tutto per bene o Enrico IV di Pirandello?

Quel che meno si conosce è che Herlitzka è anche il più colto degli attori italiani.  Non ne fa esibizione. Però due anni fa volle, col suo tipico understatement, calare la maschera. E portò un po’ in giro un altro suo monologo, una silloge di passi del De rerum natura. Ma con un particolare: il più arduo dei poeti latini, uno dei più ardui poeti di tutti i tempi, veniva recitato da Herlitzka nella sua traduzione.

Questa traduzione l’aveva compiuta lungo tutta la vita. Al liceo torinese aveva avuto come insegnante Oreste Badellino, uno dei grandi latinisti del Novecento.  E adesso il lavoro viene pubblicato: La natura di Tito Lucrezio Caro (La nave di Teseo, pp. 276, euro 18). Consiste di quattro libri sui sei del poema; non dispero che il Maestro voglia dedicarsi a completare l’opera.

Mentirei se affermassi che si tratta di un testo facile. Herlitzka ha fatto più una versione d’arte che una volta a far comprendere i riposti sensi del testo. Va letta per la sua bellezza e per la sua enorme musicalità. E anche per essere una scommessa della quale la portata potrebbe sfuggire. Il poema è volto in endecasillabi di terzine dantesche, e nello stile dei nostri trecentisti. Diventa un trionfo di ritmi, rime e luci. Poi, per capire la rivelazione del più grande poema scientifico di tutta la poesia occorre rivolgersi a più didattici traduttori. Il mio preferito è Armando Fellin (Utet).  Dante non aveva letto Lucrezio, ma nel X dell’Inferno lo colloca senza menzionarlo fra coloro che l’anima col corpo morta fanno. Ed ecco la scommessa di Herlitzka: costringere Dante, il massimo piacere del quale, almeno nella prima Cantica, è quello di condannare a supplizi atrocissimi tutti i suoi nemici e anche gran parte degli amici morti e vivi, a cantare un poeta che spiega ciò che ho detto sopra e che l’anima immortale non esiste. Tutto qui. Anche Dante ha trovato, grazie a Herlitzka, il suo meritato inferno.

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*Da Libero del 9.6.2019

Paolo Isotta*

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