Riletture. “Ribelli al futuro” di Kirkpatrick Sale: oltre i luddisti la tecnica non è mai neutrale

Il problema della tecnologia, dei suoi costi sociali, ambientali ed esistenziali e delle sue delusioni è il tema del saggio “Ribelli al futuro” (ed. Arianna, 1999, pp. 278) dell’ecologista americano Kirkpatrick Sale, esponente di punta del bioregionalismo. Il libro, che ha per sottotitolo “i luddisti e la loro guerra alla rivoluzione industriale”, è, in buona parte, una ricostruzione piuttosto dettagliata e documentata, sulla scorta tra l’altro dei quotidiani dell’epoca, delle vicende e delle ragioni dei luddisti. Il luddismo, com’è noto, fu il movimento dei tessitori inglesi che tra il 1811 e il 1813 nel cuore dell’Inghilterra e, precisamente, nelle cinque contee, che secoli addietro erano state teatro delle gesta di Robin Hood (Yorkschie, Lancashire, Nottinghamshire, Cheshire e Derbyshire), si oppose col sabotaggio e con azioni violente all’introduzione delle nuove macchine tessili azionate dalla macchina a vapore. Come nota Sale, la macchina a vapore, inventata nel 1776 da Watt e Boulton, “è stata la prima tecnologia, nella storia dell’uomo, ad essere indipendente dalla natura, dalla geografia dal ciclo stagionale e dal tempo, dal sole, dal vento, dall’acqua e dall’energia umana ed animale. Per la prima volta ha permesso all’uomo di avere al suo comando una scorta di energia costante ed inesauribile, limitata solo dalla disponibilità della riserva di carbone… ha quindi permesso lo spostamento sorprendente da quella che era un’economia organica fondata sulla terra, sul lavoro e sullo scambio locale, ad un’economia meccanica basata sul combustibile, sulla fabbrica e sul commercio estero”.

I luddisti, che derivarono i loro nome da un mitico re Ludd, le cui origini sono tuttora oscure, furono dipinti dagli economisti borghesi e dalla cultura progressista come dei biechi reazionari che si opponevano al progresso per la paura, peraltro giustificata, della disoccupazione. Basti pensare che “nella sola Leeds, uno dei maggiori centri della lana, il numero dei motori Watt crebbe da 20 circa nel 1800 a 120 nel 1825, mentre il numero dei cimatori scese da 1733 nel 1814, con una paga dai 36 ai 40 scellini alla settimana, a meno di un centinaio intorno agli anni ’30, con un salario che variava dai 10 ai 14 scellini”. In realtà, con i luddisti, come dimostrato ampiamente dal saggio,  ci troviamo di fronte ad una vera e propria ricolta contro il mondo moderno, condotta con l’ascia, la picca e il fucile in nome di valori tradizionali e di un tipo di vita comunitaria che l’incipiente rivoluzione industriale stava spazzando via: “I luddisti non erano ostili ad ogni strumento meccanico, ma a tutte le macchine nocive alla comunità, come veniva sancito in una loro lettera del marzo 1812, a quei congegni che la comunità non poteva approvare… a quel complesso di macchinari, in altre parole, prodotto con finalità esclusivamente economiche, a beneficio di pochi, mentre tutto il resto, la società, l’ambiente e la cultura, era considerato irrilevante”. Certamente, “cimare la lana e il cotone con grandi cesoie manuali era un’operazione difficile e faticosa, che la cimatrice meccanica avrebbe fatto altrettanto bene, con minor sforzo e in minor tempo… Ma (i tessitori, n.d.a.) sapevano e diventarono luddisti perché sapevano a cosa avrebbero rinunciato, accettando una tecnologia simile: al cameratismo delle botteghe dei cimatori, col suo orario libero; alla pausa per bersi una birra e scambiare due parole e all’orgoglio per la propria perizia, che sarebbero stati permutati con la schiavitù di fabbrica, con la disciplina, la gerarchia, il controllo”. I luddisti, dunque, furono ribelli di un genere particolare, “ribelli al futuro” assegnato loro dalla nuova economia, incoraggiata dal re e dal governo postisi a servizio del capitalismo industriale: “La vera sfida dei luddisti non fu tanto materiale, contro macchine e stabilimenti, quanto morale: una sfida che chiamava in causa le premesse fondamentali di quella politica economica e la legittimità dei principi di profitto sfrenato, di competizione e di innovazione che ne erano alla base”. Le ragioni della sconfitta dei luddisti sono da ricercarsi per un verso nella spietata repressione attuata dal governo inglese, la più grande nella storia della Gran Bretagna, se si pensa che contro di loro, contro la minaccia al nuovo ordine, furono impiegati polizia e giudici speciali ed un esercito più numeroso perfino di quello partito con Wellington cinque anni prima per combattere gli eserciti napoleonici e furono comminate condanne all’impiccagione e ai lavori forzati. Per l’altro verso nel carattere non politico del luddismo. Scrive Sale: “il problema era però che il luddismo e il risentimento popolare che lo accompagnava non era davvero rivoluzionario o almeno non lo era secondo i canoni tradizionali… la rivolta del luddismo non fu concepita, alla base, contro il governo o contro il re come era stato invece per altre rivolte precedenti, fra tutte quella di Maria Stuarda – né contro l’antiquata aristocrazia, come era accaduto in Francia, ma piuttosto contro i mutamento causati dall’industrializzazione e dai valori che promuoveva”. Ma perché interessarsi ancora di vicende lontane nel tempo e che, tutto sommato, occupano un piccolo spazio nella storia? La ragione fondamentale, secondo Sale, che non nasconde le sue simpatie per questi “antagonisti del progresso”, è che dalle vicende possiamo trarre utili lezioni per il presente. In particolare, essi hanno posto il problema della presunta neutralità della tecnica: “il problema non consiste nell’usufruire o nell’astenersi  dalla tecnologia – ogni società, fin dai suoi esordi, è ricorsa a strumenti – ma nel chiedersi se la tecnologia , considerata in un contesto generale e a lungo termine, si riveli benigna o maligna, per chi vi ricorre, per la comunità circostante, per la cultura, per l’ambiente, per il futuro”. C’è un filo verde che collega i contestatori e i critici della prima rivoluzione industriale ai critici e ai contestatori della seconda rivoluzione industriale in atto: dai luddisti e dai romantici nell’Ottocento – citiamo Thoreau e Emerson tra i filosofi e Byron tra i poeti e i letterati (quest’ultimo, tra l’altro, in un celebre intervento alla Camera dei Lords prese le parti dei luddisti contro l’opinione corrente e maggioritaria) – fino ai movimenti ecologisti e ai filosofi dell’ecologia nel Novecento (citiamo a mo’ d’esempio Arne Naess, Wendell Berry, Rutilio Sermonti).

La seconda rivoluzione industriale, alla cui analisi è dedicata la seconda parte del saggio di Sale con dati statistici sugli USA recenti e di notevole interesse, è simboleggiata dalla cibernetica e i suoi effetti sono di gran lunga più devastanti rispetto alla prima. La recente tecnologia industriale infatti viene imposta alle nostre esistenze in modo tale che “la vita dell’uomo è sempre meno collegata a quella delle altre specie, ai sistemi naturali, a modelli stagionali e regionali e sempre più alla tecnosfera, a costruzioni artificiali e all’ingegneria, a modelli e a procedure industriali”.

Le tecnologie, è questa la conclusione del saggio, non sono mai neutrali, talvolta sono dannose e, qualunque siano i benefici, i costi – dall’inquinamento al degrado, allo smarrimento del senso della vita – seguono a ruota. Le opposizioni all’industrialismo e alla cultura antropocentrica sono varie e sembrano oggi in crescita, spingono per un dibattito sulla legittimità della società industriale e sulla necessità di una conversione ecologica dell’economia. Se è vero che “la civiltà industriale è oggi l’acqua in cui nuotiamo come pesci nell’oceano e sembriamo quasi incapaci di immaginare che possa esistere un’alternativa”, è anche vero che “alcuni pesci non solo si rendono conto che stanno nuotando nell’acqua, ma anche che quest’acqua è inquinata”.

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Sandro Marano  

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