Cultura (di P. Isotta). Al Vivarium Novum, lo studio del latino è palestra di libertà

Dalla stazione Termini, il taxi si avvia verso i Castelli. A grado che ci avviciniamo, l’aria si fa fresca e tersa. Un verde delizioso, con le sfumature scure del bosco, rinfranca gli occhi. Si sale. Dal bosco giungono fragranze. Si costeggia l’imponente monumento della Villa Aldobrandini. Era appartenuta al vescovo cinquecentesco Alessandro Rufini. Costui doveva essere ricchissimo:  continuando a salire verso la sinistra, si arriva a un’altra villa da lui fatta costruire, la Falconieri.

Passata al cardinale Gian Vincenzo Gonzaga, pervenne subito ai Falconieri, che ne furono proprietarî fino al 1859. Orazio, che l’acquistò, la fece rifare dal Sangallo e da Borromini. Più piccola, più svelta, ma anche più elegante della Villa Aldobrandini, la delizia (giusta il lessico di allora), secondo quella tradizione dei successivi depositi stilistici dai quali sortono affascinanti risultati, subì interventi settecenteschi. Alcuni affreschi sono di Pier Leone Ghezzi, al quale, come disegnatore, dobbiamo i soli ritratti autentici di Vivaldi e Pergolesi. I dipinti a muro di quattro grandi sale sono dedicati al ciclo delle Stagioni e sono densi di riferimenti mitologici. Sono un piccolo sunto, simbolico ed emblematico, che va da Omero a Ovidio e finisce con Le Dionisiache di Nonno di Panopoli, poeta greco d’Egitto della Tardo Antico: l’ultimo enciclopedista del Mito prima della Rinascenza, e con un ductus così appassionatamente romantico che consiglio a tutti gli amanti della poesia di leggere questo poema, lungo quanto l’Iliade e l’Odissea sommate. Luigi Miraglia, che con la sua Accademia da tre anni la occupa, spiega che nei suoi agi e riposi si riuniva un’altra Accademia, l’Arcadia: e Gravina, Metastasio, Crescimbeni, vi conversavano e discettavano.

Era un’idea della cultura che sarebbe sopravvissuta fino al tempo di Leopardi, sebbene Giacomo, per via della vita angusta alla quale lo sottopose l’avarizia della famiglia, potette condividerla solo quando fu ospite a Napoli di Antonio Ranieri. L’otium. In senso stretto (quante parole occorrono a noi per volgerne una latina!) significa: “tutto ciò che non attiene alla cura dello Stato”. Persino Virgilio chiama il suo comporre Le Georgiche (sempre a Napoli: dulcis alebat Parthenope, “mi nutriva la dolce Partenope”, ricorda negli ultimi quattro versi) ignobile otium. È un ossimoro. Otium è lo studio della filosofia, la poesia, la stessa storia: sono le Muse. Ma gli Arcadi, come molti latini, sapevano combinarlo con godimento giudizioso d’un luogo ameno, perché la cultura può essere sacrificio dello spirito (e innanzitutto del nostro tempo), ma non è necessario lo sia del corpo. Anche Edward Gibbon, alla fine del Settecento, afferma la stessa cosa. L’Autore di una delle più monumentali opere mai scritte, la Storia della decadenza e della caduta dell’Impero Romano, nella prefazione a un lavoro durato vent’anni (la migliore edizione italiana si estende per 2915 pagine in ottavo grande), dichiara trattarsi di “un’opera, che per quanto possa sembrare faticosa, è la più gradevole occupazione delle mie ore d’ozio”.

Miraglia, negli occhi del quale vedi un fuoco sacro con una venatura di disperazione, ha creato una delle imprese più utopiche, più folli – e più belle. Il Vivarium Novum: per insegnare ai ragazzi il latino (e, mi sono accorto, pure il greco). Si tengono corsi universitarî: giovani di tutto il mondo, lì soggiornanti, imparano la più bella lingua che l’uomo abbia avuta. Non solo a leggerla, a possederne la letteratura: fra loro debbono parlare latino, diventata, sempre per loro, sola lingua comune. Come per due millennî, per la grandezza di Roma: che da militare e civile si fece culturale e di straordinaria capacità di accogliere tutto quel che fosse diverso da lei. Lo parlano in modo così fluente, che io resto sbalordito. Quando si tengono convegni o seminarî, a vicenda uno di loro, ascoltata una lezione in italiano, o inglese, o francese, o tedesco, sale sul podio e ne fa una sintesi (talvolta addirittura una parafrasi), senza nessun appunto, in latino. Perché sono anche esercitati alla memoria, quella che i loro coetanei non posseggono più. La memoria è una delle ricchezze dello spirito: continua ad agire anche mentre ne siamo inconsci (oggi la scienza ce lo spiega con la vita delle sinapsi), e stabilisce nello scrigno delle mente nessi fra cose che a un certo punto ci si palesano, e ci parevano lontane. La memoria è uno strumento che crea. Infatti, nel Mito le Muse sono tutte figlie di Mnemosyne, la Memoria.

A che serve lo studio del latino e del greco? È una ginnastica mentale, si diceva un tempo. Troppo facile; e nemmeno vero. Fra le tante risposte, la mia è semplicemente questa. Chi li ha studiati ha un accesso alle cose fra le più grandi che il genio umano abbia create: da Omero a Platone, da Pindaro ad Aristofane, ai Tragici; da Plauto e Terenzio a Lucrezio a Livio a Virgilio a Orazio a Tacito. Possiede quindi un mezzo per comprendere la realtà, e anche per affrontarla, assai più ricco di chi non ha avuto lo stesso privilegio. E ripeto una vecchia idea. La cultura, che incomincia con quella classica, è il modo per essere cittadini e non sudditi; per essere davvero liberi. In un mondo nel quale la barbarie prevale, è un mezzo di difesa, e anche di attacco: ma per pochi privilegiati. Al Vivarium Novum vengono persino ragazzi cinesi, e parlano latino con la dolce pronuncia italiana. Due giorni fa sono stati cinquecento anni dalla morte di Leonardo, genio universale se mai ve ne furono. Basta lui ad asseverare quanto dico.

In questi giorni si tiene un convegno dal titolo Communis hereditas. Vi partecipano alcuni nomi fra i più prestigiosi della cultura mondiale. E non solo letterati: anche un grande medico come Lamberto Maffei, già presidente dei Lincei. La speranza: far dichiarare le lingue classiche patrimonio dell’Unesco. Utopia? Incredibilmente, in controtendenza, il nostro Senato ha votato all’unanimità una mozione che impegni il governo a sostenerla in sede internazionale. Persino io, con le mie povere forze, lotto con loro. Se ci si riuscisse, sarebbe forse una vittoria in articulo mortis: ma sarebbe egualmente uno dei giorni più belli della nostra vita.

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 *Da Libero del 5.4.2019

Paolo Isotta*

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