Molta poesia per tutti, cioè, Aldo Nove pubblica un libro di versi sul destino drammatico di Mia Martini ( Mi chiamo… ed. Skira, pp. 124) e il suo prodotto gira nelle librerie italiane; Vivian Lamarque, sulla stampa nazionale, ricorda la bellezza delle elegie veneziane di Andrea Longega (Caterina, ed. L’Obliquo, pp. 53); Valerio Magrelli assembla un racconto lirico di frammenti di scrittura, di prosa aneddotiche e versi (Geologia di un padre, ed. Einaudi, pp. 141).
Ecco, squilli originali di poesia, mentre il caos estivo moltiplica le notti bianche dedicate all’arte della parola e la dea delle arti continua ad essere confusa e felice.
Il tema non è il successo effimero delle esperienze del ‘fare poesia’. Se i reading in pubblico sono diffusissimi, tuttavia le voci che emergono restano segnate dall’ipertrofia del consueto io lirico. C’è uno tzunami di individualismo creativo di massa che grida, anche nelle ‘piazze del web’, senza portare alcuna chiarezza nel dibattito sulle sorti della poesia.
Nelle discussioni sulla dimensione lirica, però, le tematiche, da promuovere davvero, dovrebbero essere quelle dedicate all’ originalità/oggettività/eticità dei contenuti per poter cantare la contemporaneità .
Chi opera nell’università, nelle scuole, nell’editoria ha la sensazione di aver perso la bussola critica. Sarà a causa della iper-produzione letteraria; sarà a causa degli studiosi che hanno ceduto alle ragioni del mercato, promuovendo poeti non considerevoli di nessuna attenzione. Chi opera in questi ambiti, desidera quasi non pronunciarsi più sul poeta X o sulla quella nuova raccolta Y. In ogni modo i critici e gli studiosi restano sì in silenzio ma alla ricerca di qualche ‘prova’ per dimostrare che l’esperienza lirica non vuole morire; al contrario, essa invoca scrittori in versi disposti a produrre testi critici e razionali: testi dedicati alla contemporaneità, la quale, se raccontata, non può prescindere dalle condizioni della crisi in corso nella comunità nazionale.
L’idea e l’esperienza della crisi – come fu l’idea e l’esperienza della guerra per il ventesimo secolo – potrebbe rappresentare un punto centrale di discussione per il ‘fare poesia’. La crisi sociale attuale crea l’occasione per generare scritture in versi a cui legarsi, a cui chiedere pensieri, per non andare verso il baratro, senza una reazione intellettuale.
La poesia con la crisi, ed è questo è il sintagma essenziale da considerare. Nel novecento, in Italia, da Pietro Jahier sino a Salvatore Quasimodo, tantissimi scrissero tenendo di continuo presente un altro sintagma, ovvero la poesia con la guerra.
“La guerra richiama con violenza un ordine inedito nel pensiero dell’ uomo, un possesso maggiore della verità. ” (S. Quasimodo, Discorso sulla poesia, 1956).
Travolto dalla crisi degli odierni sistemi socio-culturali, l’intellettuale appare forse come il giovane del 1940 travolto dallo scontro tra Democrazie e Stati totalitari? L’intellettuale, nel nostro tempo, sembra un giovane travolto dalle cose che cambiano repentinamente e si scontrano, creando “ un ordine inedito nel pensiero dell’uomo.”
Perciò, nostra Signora fanatica spettatrice, la poesia, dovrebbe far venire fuori ‘nuovi ordini artistici’ dalla vulva enorme della crisi contemporanea, e non il solito lirismo post-ermetico da sfiatatoio sentimentale.
Ora, per rivivere il destino della poesia in un periodo sociale di disfacimento, l’opera di Robert Brasillach si fa attualissima. La sua è un’ opera poetica che racconta di un trentenne consapevole del suo mondo atrocemente mutato; che narra in versi gli inganni dei sistemi politici; che, con purezza lirica, prova su se stesso la precarietà della gioventù. Per tutto questo, Brasillach scrive la celebre poesia dedicata alla patria, Il mio paese mi fa male.
L’esemplarità tematica del testo di Brasillach alimenta la speranza di ‘fare poesia’, senza vergognarsi, per uscire dal caos di una letteratura priva di memoria storica o di senso comunitario. L’arte nasce dalla resistenza di coloro i quali, con il proprio linguaggio, scoprono la coscienza del tempo o la bellezza di appartenere ad un’ età.
Leggiamo allora Robert Brasillach,
Il mio paese mi fa male per le sue vie affollate,
Per i suoi ragazzi gettati sotto gli artigli delle aquile insanguinate,
Per i suoi soldati combattenti in vane sconfitte
E per il cielo di giugno sotto il sole bruciante.
Il mio paese mi fa male in questi empi anni,
Per i giuramenti non mantenuti,
Per il suo abbandono e per il destino,
E per il grave fardello che grava i suoi passi.
(…)
Il mio paese mi fa male con tutta la sua giovinezza
Sotto bandiere straniere, gettata ai quattro venti,
Perdendo il suo giovane sangue in rispetto al giuramento
Tradito da coloro che lo avevano fatto.
(…)
Il mio paese mi fa male per la sua falsità di schiavi,
Con i suoi carnefici di ieri e con quelli di oggi
Mi fa male col sangue che scorre,
Il mio paese mi fa male. Quando riuscità a guarire?
( da Le poemes de Fresnes )
Con questi versi si ha coscienza di voler cercare linguaggi poetici che siano in dissenso con le produzioni letterarie sfornite di tensioni etico-politiche; si ha coscienza di voler tornare a scrivere versi lontani da ogni vuoto sperimentalismo artistico; si ha coscienza di voler creare opere liriche oneste o di dover tornare a scriver e cantar per la giustizia umana.