Cultura (di P. Isotta). Lo splendore di Antonietta Stella, il soprano che coltivò il Bello

Sabato, verso l’una di notte, erano già le due per via dell’ora legale. Ho interrotto la lettura di una nuova biografia di Giuliano l’Apostata, uno dei più grandi uomini, soldato e principe, del Tardo Antico. Apro subito una parentesi: le politicamente scorrette “Edizioni di Ar” hanno ripubblicato nel 2006 l’aureo piccolo libro di Goffredo Coppola La politica religiosa di Giuliano l’Apostata. Coppola, sannita, è autore di un importante Epicuro (ristampato dalla stessa casa editrice) e di una bellissima vita di Augusto. Questo filologo, storico e papirologo (se ne occupa Luciano Canfora ne Il papiro di Dongo) ebbe il torto di accettare il rettorato dell’Università di Bologna nel 1943. Tutti fuggivano; lui restò. Venne assassinato dai partigiani il 27 aprile 1945.

Non nobile il motivo che mi aveva fatto lasciare il libro. Curiosità, vanità. Volevo vedere la mia facciaccia in televisione, in un programma della seconda rete intitolato TG2 Storie.  M’interessava perché avevano mandato a intervistarmi Miska Ruggeri, fino a quel giorno mai incontrato. Ha lavorato a lungo proprio a “Libero”; e, incredibile (intendo dire: per un giornalista), si è presentato col dono di due suoi libri, Posidonio e i Celti (Atheneum) e Apollonio di Tiana (Mursia). Scritti con un bello stile, ma soprattutto con la competenza e gli strumenti dell’antichista di professione. A lui non potevo darla a bere.

Se non che, la mia vanità, invece di essere punita, è stata premiata. Ma in via indiretta, come accade sovente. Ossia: il castigo, mettendomi al confronto con chi sta mille spanne sopra la mia testa, si è trasformato in un onore da me ricevuto.

Un primo “servizio” è stato una sfilata di vecchiette. Sbaglio a chiamarle così.  Tutte ben conservate, e dal piglio sicuro, assertivo. Ne avevano ben donde. Gli autori della trasmissione erano andati a scovare le segretarie dei grandi (i veri grandi) del cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta. Quella di Fellini. Quella di De Laurentis. Di altri. Trattavano a tu per tu con Claudia Cardinale e Alain Delon, li mandavano a fare in culo quando era il caso, li consolavano e rifocillavano in altre circostanze. Delle vere personalità. E la testimonianza di un modo di lavorare scomparso, credo, non solo in Italia, anche se soprattutto in Italia: nel quale la dedizione assoluta coincide con la gioia. Le avrei ascoltate tutta la notte; e purtroppo il “servizio” durava cinque minuti.

Ma quel che veniva dopo, non me lo sarei aspettato. Un’intervista a una novantenne. Ma che non si può definire una vecchietta. Una bella signora i modi della quale sono un miscuglio di orgoglio e signorile modestia, del tutto affascinanti.  Si tratta del più grande soprano oggi vivente, dopo la scomparsa di Montserrat Caballè: e non so dal confronto quale delle due uscirebbe vincitrice. Antonietta Stella.

Io non l’ho mai conosciuta: purtroppo; come non ho mai conosciuto di persona – per mia scelta – Maria Callas. Sono stato intimo amico di Renata Tebaldi e di Ilva Ligabue, lo sono di Mariana Nicolesco, ho conosciuto con devozione Gina Cigna e Anita Cerquetti – un colosso, se qualcuno lo capisse – e Teresa Berganza, ho frequentato una dama come Raja Kabaivanska, e due altre grandi, Ghena Dimitrova e Viorica Cortez. Infine, e lo ricordo ancora con orrore, Giulietta Simionato.  I nomi attuali che battono i palcoscenici fanno, tutti, ridere, al confronto: tranne che con l’ultima. Ma la Stella è un caso a sé. È definita “soprano lirico spinto”, e forse era così nel Cinquanta: quando, appunto, “soprano drammatico di coloratura” erano la Callas e la Cerquetti (a lei superiore). Oggi le protagoniste della Norma, di tante Opere di Donizetti, della Traviata, del Trovatore, de La forza del destino, e così via, sono solo un surrogato, perché la categoria si è estinta. A farla, oltre che le doti naturali, occorre lungo studio. Ora, Antonietta Stella ha interpretato tutti questi ruoli, e molti mozartiani e pucciniani e del cosiddetto “Verismo”: per esempio, è stata una delle più grandi Maddalene: c’è l’incisione dell’Andrea Chénier di Giordano diretta da (dico) Gabriele Santini. E si è ritirata a quarantacinque anni, risparmiandosi le penose sopravvivenze; che oggi, per molte, incominciano a venti: facendo coincidere principio e fine.

Che cosa la distingue dalle grandi colleghe? Incominciamo da quelle attuali, che “colleghe” dirsi non possono. Un’attenzione alla lettera del testo musicale che di rado i cantanti sono in grado di attuare. Cantano alla grossa, quasi che i minimi particolari di ritmo e fraseggio non abbiano il significato espressivo che soprattutto Verdi implacabilmente attribuisce. La Stella è la “fedeltà”. Insieme, l’eleganza del timbro e del fraseggio si spingono fin dove è possibile senza cadere in leziosaggine e nuocere all’espressione. Diciamo che ha coltivato, come la Ligabue e la Tebaldi, il “Bello Ideale”, che si coniuga con la verità drammatica se l’interprete sia eletto. Con una sfumatura aristocratica che mi pare essere solo sua.

Posseggo molte incisioni nelle quali ella canta. Ma ho un ricordo incancellabile di due occasioni del 1970. Due capolavori eseguiti in forma di concerto con l’orchestra di Roma della Rai: l’Attila di Verdi (parte di “drammatico di coloratura” se ce n’è una!) e l’Agnese di Hohenstaufen di Spontini. Sul podio, il ventinovenne Riccardo Muti. Come dirigeva bene, allora! Il suo meglio l’ha dato quando seguiva i due grandi suoi mentori, Francesco Siciliani e Roman Vlad. Nella complessa partitura di Spontini, tradotta in un improbabile italiano dall’originario tedesco, orchestrata in un modo che solo un grande può cavarsela (infatti, Spontini se la dirigeva da sé), la Stella cantava in un ruolo minore rispetto a quello di Monserrat Caballè: ma svettava. Nell’Attila, non ne avremo più una così. L’ aver trascorso cinque minuti ascoltandola parlare mi dà l’occasione di inviarle finalmente un saluto affettuoso.

(Poi è venuta l’intervista a me. Quale diavolo mi ha combinato lo scherzo di far apparire un nano dopo i giganti? Mi ricordo un’espressione di Mascagni. A Vienna, dopo una Cavalleria da lui diretta, uscendo dal teatro vede Brahms che da lontano lo saluta togliendosi il cappello. Era stato alla recita. “Mi vergognai come un ladro!”).

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*Da Libero del 1.4.2019

Paolo Isotta*

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