Cultura (di P. Isotta). La maestà del falcone e il culto di Federico II per l’arte della falconeria

  Nella Roma arcaica gli animali sacri erano il corvo e il picchio. Solo in seguito la regina degli uccelli sovrastò le insegne delle legioni e divenne emblema stesso dell’Impero. L’aquila era infatti anche il simbolo del re degli dei, Giove: assunta tale forma, rapì l’adolescente frigio Ganimede del quale era innamorato per portarlo sull’Olimpo per sempre. Le legioni marciavano precedute dal portatore dell’insegna, l’aquilifer, “colui che regge l’aquila”.

Mai la supremazia dell’aquila è stata posta in discussione, nelle gerarchie simboliche come in quelle zoologiche. Quando si è incominciato a occuparsi del falco? A mia conoscenza, quest’intelligentissimo volatile era caro agli Etruschi. Capua, ove Annibale si arrestò troppo, così determinando l’inizio della propria fine, era città etrusca. A detta di Servio, il sommo commentatore dell’Eneide, il nome è pure etrusco, Capys: che vuol dire falco.

Ma furono i popoli delle steppe asiatiche, chi sa da quando, che intuirono essere il falco l’animale principe per la caccia. Per la sua intelligenza, per la sua rapidità, per la sua attitudine a essere ammaestrato e per un rapporto di affetto che si crea fra lui e il suo addestratore e cacciatore. Da questi orientali all’inizio dell’Alto Medio Evo l’uso della caccia con il falco e l’arte della falconeria, tramite i popoli germanici da un lato, gli arabi dall’altro, divennero una vera istituzione tenuta nel più alto onore nel mondo europeo. Con la sua dottrina, con la sua liturgia. Le testimonianze poetiche e letterarie sono numerosissime: basti ricordare il Decamerone.

Il più grande di tutti gli Imperatori, Federico II di Svevia, erede del sangue Staufen del nonno Barbarossa e di quello normanno del nonno Ruggero II, fu anche il più grande falconiere. Ciò non toglie che fece tagliare la testa al suo falco prediletto perché aveva osato attaccare un’aquila: qui il prestigio imperiale, forma che si fa sostanza, prevalse sui gusti personali. I suoi territorî venatorî preferiti erano le pianure e le balze pugliesi, nel foggiano, a Corato e Castel del Monte, la meraviglia architettonica ottagonale da lui concepita, e la Sicilia. Or è ben noto che fra le infinite cure dell’Impero e del regno di Sicilia, formanti le sue due corone, uno dei suoi otia fu il comporre un trattato di falconeria, De arte venandi cum avibus, L’arte della caccia con gli uccelli. Sopravvive in due soli manoscritti meravigliosamente miniati, uno dei quali completo. L’edizione principe, non in quanto “prima nel tempo”, ma in quanto “prima per valore”, è a cura della storica del Medio Evo Anna Laura Trombetti Budriesi: la sesta ristampa, per i tipi della Laterza, è del 2016. La traduzione e il commento sono esemplari; l’introduzione è un libro a sé stante. Leggere la prosa di Federico provoca un intenso diletto in tutti quelli che amano gli animali e anche in chi, come me, si schiera per l’abolizione della caccia. Perché se ne ricava un amore per la Natura e, d’altro canto, un’osservazione scientificamente moderna delle abitudini e dei caratteri degli animali, che hanno del prodigioso.

L’edizione di che parlo avvenne per il concorso del “Centro europeo di studi normanni” e del suo presidente Ortensio Zecchino. Egli è stato uno dei politici più illuminati della cosiddetta (e, alla luce degli attuali lumi di luna, tanto rimpianta e da rimpiangersi) Prima Repubblica. In proprio è storico del Diritto, fra i massimi conoscitori dei Normanni e di Federico e. per giunta, fondatore e presidente del Biogem, ossia uno dei più importanti attuali centri di ricerca e didattica dedicati alla biologia e alla genetica molecolare. Trentamila metri quadrati donde sono sortiti e sortiranno ancora risultati importanti per la salute di noi tutti. E dove ha sede il Biogem? Nell’altopiano detto Camporeale, presso Ariano Irpino. Ossia il luogo nel quale Ruggero II convocò tutta la nobiltà e il clero del regno di Napoli e di Sicilia per dettar loro le Assise, ossia la prima costituzione moderna concepita in Europa. Tutto si tiene. Speriamo che ci si ricordi di nominarlo, Zecchino, senatore a vita.

Chi ha il privilegio, come me, di essergli amico, conosce la ricchezza della sua umanità. Anche lui ha i suoi otia. Non limitati ai libri che scrive. Ha un grande talento di fotografo. E questo talento si esplica da un lato nelle immagini di una civiltà contadina in via di estinzione: ricordo una torre normanna oggi diruta e divenuta stalla, greggi e cani pastori, vecchi mietitori dagli arti nodosi. Dall’altro, e soprattutto, in quelle dedicate all’osservazione del mondo animale. Ha consacrato un meraviglioso libro di fotografie alle Georgiche di Virgilio. Chi mi conosce e conosce il mio culto per il più grande dei poeti capisce che non potrei non volergli bene. Adesso un’antologia di fotografie da lui dedicate agli uccelli – rigorosamente in bianco e nero, come per me la fotografia come arte dovrebb’essere sempre – esce a commento di un’antologia tratta dal libro di Federico. S’intitola Il potere dell’armonia, l’editore è “Il Cigno” di Roma; verrà presentato mercoledì 27 ai Musei di San Salvatore in Lauro a Roma alle sette pomeridiane, insieme col volume sulle Georgiche.

Il nuovo libro contiene una serie vertiginosa di immagini di falchi. La fierezza, l’intelligenza, la bellezza, emergono, insieme con una specificazione delle varie razze già contenuta nel testo fridericiano. Ma ci sono anche altri volatili: non potrebbero mancare le aquile; e paesaggi ora assorti nel silenzio di vette, ora vasti e misteriosi. Guardali uno per uno, questi animali, e comprendi che la Natura è anche il più grande degli artisti, il più ricco di fantasia. La mia predilezione va alle anse del Mincio, il fiume contemplato dal ragazzo Virgilio: coi suoi cigni, l’uccello di Apollo, canoro e a volte feroce. Per stare alla musica, se al falco ha dedicato un capolavoro Richard Strauss, La donna senz’ombra, al cigno ne ha regalato uno Ciaikovskij, Il lago dei cigni.

*Da Libero del 24.03.2019

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Paolo Isotta*

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