Musica. La rivoluzione dei Kutso nicciani e vitalisti con il sorriso sulle labbra

KUTSO1Una giornalista, a occhio e croce poco più che cinquantenne, storcendo il naso prima dell’inizio della conferenza stampa all’ambasciata di Francia, dice di essersi documentata su un certo gruppo emergente italiano, i Kutso, che precederanno l’esibizione di Simone Cristicchi a piazza Farnese in occasione della Festa della Musica di venerdì 21 giugno, nel concerto organizzato dall’Institut Français – Suona Francese – ed Edison a Roma. Sprezzante, per una decina di minuti, pontifica dicendo che ne ha ascoltato una canzone e che a suo dire producono soltanto un fastidioso rumore, un frastuono confuso.

Un’altra giornalista, paziente, accanto  a lei, la ascolta distratta. Poi, una domanda semplicissima: e se, invece, quella musica che la fustigatrice trova così confusionaria e rumorosa esprimesse un disagio per il tempo che stiamo vivendo? La butta lì, in fondo non ha mai sentito neanche una canzone di questo gruppo, anzi, non li ha mai sentiti nominare. Alla fine, scova nella cartellina per la stampa la descrizione del gruppo: «I KuTso uniscono scherzo e provocazione a un linguaggio musicale gioiosamente frenetico. La loro musica solare e irriverente è il tappeto sonoro di testi segnati da forti dosi di simpatico disfattismo e smielato sarcasmo. I concerti, veri e propri mix esplosivi di nonsense, disperazione, movimenti inconsulti, invettive e travestimenti estemporanei trasportano il pubblico in un’atmosfera surreale e sgangherata».

Ah, ecco. Altro che frastuono confuso. La curiosità cresce, un collegamento al loro sito e la scoperta. Le loro canzoni sono la scoperta di un gruppo intelligente travestito da saltimbanchi a metà tra l’agitato e il demenziale. Ovvero, l’ennesima dimostrazione che si può essere terribilmente seri, riflessivi e portatori di un punto di vista sensato senza per forza vestire i panni dei primi della classe, di quegli acidi precisini compostini un po’ grillini sempre col dito puntato. Il loro background – non parliamo di miti  o modelli, per carità, come precisa Matteo Gabbianelli, autore dei testi – sono Giorgio Gaber, Iggy Pop, Lucio Battisti, Totò, Micheal Jackson.

Loro dicono, cantano, urlano cose pesanti, ma lo fanno con una leggerezza e con un’ironia che conquista, sempre che ci si avvicini con curiosità e senza preconcetti. E cioè senza quel cinismo e quel disincanto di chi ha visto già tutto, che ha vissuto il meglio, tenendoselo, e lasciando spesso il peggio, ma solo con la curiosità e il desiderio di rispecchiamento di una generazione fresca e anche un po’ arrabbiata, quella di chi – ventenne o appena trentenne – si trova già all’angolo di un mondo – quello dei “grandi” – che sembra aver emesso una sentenza di condanna alla disperazione per futuro incerto. Una scomoda eredità da rifiutare in nome della speranza per la sopravvivenza, della voglia di fare e di creare. Una condanna da rifiutare, dissipando quel grigiore che ogni giorno si vede nebulizzare davanti agli occhi, con l’energia e la solarità di chi la vita la vuole mordere e non subire.

Come mordono loro, questi quattro giovani in Decadendo (su un materasso sporco): Matteo Gabbianelli (voce), Luca Amendola (basso/voce), Donatello Giorgi (chitarra/voce) e Simone Bravi (batteria/voce), i Kutso. Un nome che sembrerebbe un programma, Kutso, letto all’inglese “in fase di attacco” suonerebbe… beh, è chiaro… e che invece è una denominazione scelta quasi a caso, senza intenti particolari, quando il gruppo si è formato anni fa, dal modo in cui l’allora sedicenne Matteo scriveva la parolaccia.

Il politicamente corretto impone di chiamarli Cut-so… o Cuzzo… Ma il politicamente corretto non è per loro – per quanto il loro politicamente scorretto non faccia l’occhiolino alla volgarità ormai sdoganata anche nel linguaggio – mentre l’ironia, l’assurdo, il controsenso, la scomoda schiettezza, invece sì. E anche il gioco e il sorriso, un mezzo di rivolta per esprimere il rifiuto delle etichette, delle imposizioni da parte di autorità per niente autorevoli e di poteri che non riconoscono come tali. Tanto da dire, in Via dal mondo: “Vorrei non avvelenarmi, vorrei riuscire a ignorarli ma loro vogliono usarmi e allora vorrei annientarli. Buttiamo a mare i dirigenti, i segretari, i presidenti, con tutti quanti i parenti… Vorrei lasciarli parlare, vorrei poterli accettare, ma loro mi voglion truffare, allora li devo struccare. Ma quante belle elezioni e quante giuste istituzioni che stanno in mano a ’sti buffoni… Poniamo fine ai loschi giochi, bruciamo tutto in mille roghi, noi siamo tanti, loro pochi.”

«Mi piacciono gli ossimori, il contrasto, i colpi di scena, mi piace stupirmi», continua Matteo. I Kutso, in breve, sono un concentrato di vitalità ed energia esplosiva che rifiuta la rassegnazione anche quando chiede aiuto, esprime disperazione o rigetto per la situazione presente.

Ma con nessuna velleità di esprimere messaggi generazionali o di parlare per conto di qualcuno: «I testi sono frutto di “permalosaggine esistenziale” – racconta Matteo Gabbianelli, trentatré anni, autore delle parole – sono una personale comunicazione con noi stessi, un modo di guardarsi allo specchio senza farsi sconti, di esprimere il marcio e di vederne l’aspetto buffo. C’è una negatività esorcizzata da una musica solare, c’è sarcasmo più che ironia, perché l’ironia presuppone un porsi al di sopra delle cose, il sarcasmo è proprio di una situazione che si vive da dentro, è più amaro. Soffro molto la prepotenza perpetrata nei miei confronti. Non credo, però, nel “si stava meglio quando si stava peggio”, le situazioni si trasformano ma i problemi generazionali rimangono gli stessi. Credo nell’eterno ritorno di Nietzsche, non penso che questi siano tempi bui, e allora gli anni Settanta che cosa sono stati? In ogni tempo ci sono le opportunità, poi c’è una parte che sa coglierle e un’altra che non ci riesce».

Rosalinda Cappello

Rosalinda Cappello su Barbadillo.it

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