TV. Perché ci piace ‘Das Boot’ e il cuore (grande) degli uomini di guerra

Das Boot
Das Boot

Piace la serie televisiva ‘Das Boot’. Per i primi due episodi l’audience è stato alto. Piace perché racconta una storia divenuta epica grazie alla letteratura di Lothar-Günther Buchheim, scrittore che dedicò due romanzi alle forze sottomarine tedesche nella Seconda guerra mondiale. E piace l’opera in onda su Sky perché crea un collegamento tematico con il capolavoro  cinematografico U Boot 96’ (1986) del regista Wolfgang Petersen. Nel 2018  il successo  è stato accordato dal pubblico tedesco con la messa in onda di questo sequel  televisivo che osserva, con occhi liberi, nelle vicende militari germaniche.

‘Das Boot’ coinvolge per la ricostruzione degli ambienti storici. Le facce di giovani lupi.   Gli ufficiali dal volto jüngeriano. I sottomarini macchine lucenti e tremende. Poi il coraggio e la rabbia. La trama diviene sincera poiché dimostra, dalle prime puntate, il lato psicologico della guerra; ovvero, Simone Strasser, l’alsaziana,  divisa dal lavoro per la Germania e  l’affetto per il fratello, Frank Strasser, marconista della Kriegsmarine, in contatto con la Resistenza francese.  È questa la tragedia dei fratelli o degli amici  che si ritrovarono,  in un niente, da una parte o dall’altra del conflitto.

Nelle prime puntate l’umana vicenda è intensa. Con i rimorsi del comandante Hoffmann per la sua testimonianza che cagiona la fucilazione di un marinaio. Con Simone Strasser, interpretata da Vichy Krieps, attrice dall’espressione aristocratica, che ha il volto  portato via da una tela vermeeriana.  Allora i cuori degli sconfitti sono veri mentre pulsano e corrono, da una banchina all’altra, nel porto di La Rochelle, in un 1942 non lontano dalla fine dell’anno a  Stalingrado. E i cuori hanno momenti di pietà per il nemico. Nelle prime scene, un marinaio americano vittorioso osserva il mare-tomba dentro cui si è inabissato il sottomarino tedesco ed invita ad aver pietà e rispetto per i giovani sommergibilisti battuti.

Poche frasi con il senso della pietas virgiliana. Poi il dramma interiore degli uomini di guerra vissuto nelle divise segnate dall’orgoglio. Per questo, i personaggi creano una caratterizzazione leggibile: vi sono uomini e donne che vivono, per alti e nobili ideali, sotto diverse bandiere. Un contenuto poi emerge: la narrazione dei vinti esprime tonalità romantiche. Allo spettatore è lasciato il volto di chi combatte la propria guerra, sbagliata pure, ma sempre la sua, voluta dai padri e dalla quale è difficile fuggire. 

Poche battute per spingere un’altra volta la memoria dentro un passato che fa rammentare la frase dell’ammiraglio che disse,“Con gli U Boot da soli si poteva vincere la guerra.” L’ultima volta in cui ascoltammo questa frase indossavamo la divisa con le bitte sulle maniche, e non ci meravigliammo.

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Roberto da Bari

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