Libri. “The game”: ovvero perché Baricco non è (e non sarà mai) Joseph Roth

Alessandro Baricco, The Game

Tutta l’opera di Alessandro Baricco è riassumibile in: «adesso ti spiego come è andata veramente», detto a Marco Polo, a Beethoven, a Omero, fino ad arrivare a Steve Jobs, come nel suo ultimo libro: “The Game” (Einaudi). È fatto così. In molti vorrebbero avere le sue certezze, il suo ego, la sua naturale propensione a spiegare. Quello che lo frega è che mentre illustra si compiace, e compiacendosi viene posseduto da se stesso, una sorta di doppio Baricco, che, però, è quello che emette i Pof (divenuti panattiani col film di Zerocalcare), che sono, in realtà, i rumori di fondo del suo piacere. L’idea di “The Game” è capire perché si è abbandonato il gesto per il movimento, i blocchi geometrici per il presente liquido, come internet e web hanno cambiato le nostre vite, e tutto viene riassunto nei passaggi calciobalilla-flipper-SpaceInvaders, ma Baricco non è Joseph Roth né Nassim Taleb, tanto che un solo capitolo – su programmi e social network – di Roberto Cotroneo in “Niente di personale” riassume quello che nel suo Game viene spalmato in trecento e fischia pagine tra mappe e repliche del web. I capitoletti baricchiani sembrano trenini, nella sua stanza dei giochi, che arrivano in orario – con diversi refusi qua e là – portando idee e discussioni che tutti abbiam fatto, un giornale già letto – persino sull’oltremondo più reale: “Second Life”, che stranamente manca – con conclusioni azzardate: il sovranismo dilagante come risposta all’eccesso di irrealtà, e grandi notizie: il Novecento è morto, ma non l’ha ucciso lui.

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Marco Ciriello

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