Storia. Cento anni fa la strage di Ekaterinburg: l’eccidio dello Zar Nicola e della sua famiglia

(Ekaterinburg, Casa Ipat’ev)

Nella notte fra il 16 ed il 17 luglio 1918 si consumava uno degli episodi più inquietanti e spaventosi della storia contemporanea: la strage di Ekaterinburg. Lo zar Nicola II, la zarina Aleksandra Fëdorovna, i loro cinque figli, il medico e pochi domestici che li avevano seguiti nella prigionia, vengono trucidati nello scantinato di Casa Ipat’ev, su ordine di Lenin. Fu la fine dei Romanov, non l’unico, ma un insieme di uccisioni  compiute dal nuovo potere sovietico di membri della famiglia imperiale russa, già deposta e mai sottoposta ad alcun giudizio, neppure sommario o farsesco. Dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917 ai primi del 1919 furono assassinate una ventina di persone di ambo i sessi, circa un terzo dei membri adulti della famiglia, a partire dal deposto imperatore con la moglie e tutti i figli. Senza contare altre persone uccise, come segretari, medici, dame di compagnia, camerieri (e persino i cani). 

Come modello di riferimento i bolscevichi ebbero  il ‘Terrore giacobino’ durante la Rivoluzione Francese. Più brutale, migliorato ed esteso. Il leninismo (e poi lo stalinismo) omicida e genocida ispireranno anche Hitler e svariati dirigenti della Germania nazista, e non solo. La prima azione si ebbe la notte del 12 giugno 1918, quando un commando di bolscevichi prelevò e uccise il granduca Michele, fratello minore e già designato successore di Nicola II.

Il principe si trovava agli arresti domiciliari in un albergo di Perm’, nella regione dgli Urali. Lui e il suo segretario furono condotti in una foresta lontano dalla città e fucilati. I loro corpi vennero gettati nella fornace di una fabbrica perché non ne restasse traccia. Dapprima i sovietici annunciarono che il granduca era scomparso, poi che era stato rapito dai bianchi, quindi che era fuggito non si sapeva dove, in modo da occultare l’omicidio. 

Il commissario  Jurovskij, comandante della ‘Casa a destinazione speciale’ – ossia della Casa Ipat’ev, dove i Romanov vivevano sotto stretta sorveglianza, ad Ekaterinburg, sempre nella regione degli Urali – fu quindi incaricato di occuparsi personalmente della preparazione, dell’esecuzione e del successivo occultamento dell’eccidio dell’ex imperatore, della famiglia e delle persone che l’avevano seguita: in totale sarebbero state assassinate undici persone.  Ottavo di dieci figli d’una famiglia ebraica di Tomsk, Jakov Michajlovič Jurovskij (1878–1938), durante la Rivoluzione del 1905 entrò in contatto con il movimento bolscevico, diventandone attivista. Disertando durante la Rivoluzione di Febbraio del 1917, tornò a Ekaterinburg, dove divenne membro del Soviet degli Urali, guadagnandosi la fama di efficiente e spietato funzionario. Nel 1918, con la Rivoluzione d’Ottobre e la presa del potere dei bolscevichi, egli fu eletto Deputato e Commissario di giustizia, oltre a guadagnare un posto di rilievo nella Ceca (polizia politica) locale, che aveva preso il posto dell’Ocrana zarista. 

Lev Trotskij, il fondatore dell’Armata Rossa, voleva portare Nicola II a Mosca per inscenare un clamoroso processo. Il Soviet degli Urali invece decise per il trasferimento della famiglia dello zar da  Tobolsk  ad Ekaterinburg, il 17 aprile 1918. Ma il piccolo Alessio è malato, non può sopportare un viaggio. A partire saranno per ora solo lo zar, la zarina e la granduchessa Maria. Gli altri membri della famiglia raggiungeranno i genitori e la sorella appena le condizioni di salute di Alessio lo permetteranno.Nel luglio 1918 quando le armate dei ‘bianchi’, che combattono contro i rivoluzionari, si avvicinano alla città, il Soviet degli Urali decretò – col pieno consenso di Lenin, vero autore intellettuale dell’eccidio – la morte di tutta la famiglia: la decisione in loco fu assunta da Jakov Michajlovič Sverdlov, rappresentante del Soviet Centrale di Mosca. 

Raccappricianti le modalità dell’esecuzione, poi raccontata da alcuni dei responsabili della stessa:

‘Tra le undici e mezzanotte il commissario Jurovskij ordina all’ex zar ed alla sua famiglia di vestirsi perché saranno trasferiti in un luogo più sicuro. È un pretesto per farli scendere nel seminterrato, nella stanza dove saranno trucidati. Lo squadrone messo insieme per l’occasione comprende quattro bolscevichi russi e sette soldati ungheresi prigionieri di guerra. Jurovskij fa sistemare la famiglia imperiale nella stanza: seduti in prima fila ci sono Aleksandra Fëdorovna e Aleksej, accanto a loro Nicola e alle loro spalle le figlie; sui lati, invece, i membri del seguito: il medico dottor Botkin, la dama di compagnia Anna Demidova, il cameriere Trupp e il cuoco Kharitonov. 

Quando entra la squadra, il commissario dice ai Romanov che i loro parenti stanno continuando ad attaccare la Russia sovietica, quindi il Comitato esecutivo degli Urali aveva deciso di giustiziarli. Mentre Nicola II protesta allibito, Jurovskij ordina alla squadra di puntare. Nicola è il primo a cadere, poi tocca alla moglie, ai membri del seguito e ai figli. Le urla e i pianti disperati confondono gli uomini, che non riescono a prendere bene la mira e poi stranamente, in quell’inferno di fumo, grida e sangue, i proiettili rimbalzano sui corpi delle donne, che avevano cucito dei gioielli nei loro abiti. I soldati capiranno il motivo solo qualche ora dopo. Tre granduchesse non muoiono all’istante; rannicchiate in un angolo, agonizzanti per le ferite, vengono finite a colpi di baionetta e col calcio dei fucili. L’esecuzione termina dopo venti minuti.

I cadaveri vennero caricati su di una camion che si addentrò nel bosco di Koptjakij. A metà strada l’autocarro si impantanò: il commissario decise di bruciare sul posto due corpi per confondere un’eventuale futura indagine. Dopo la prima sommaria cremazione ed il disincaglio del veicolo, Jurovskij ed i suoi arrivarono nel luogo prescelto: una cava abbandonata chiamata la radura dei quattro fratelli (per la presenza di quattro ceppi di abeti). Lì i cadaveri vennero spogliati  e fatti a pezzi con asce e coltelli; gettati nella cava, cosparsi di acido solforico e dati alle fiamme’.

 Il giorno seguente all’esecuzione, Sverdlov – in onore del quale in epoca sovietica, dal 1924 al 1991, Ekaterinburg portò il suo nome – interruppe i lavori del Comitato Centrale di Mosca e mormorò qualcosa a Lenin, quindi informò: 

«Devo dire che abbiamo ricevuto notizie da Ekaterinburg. Per decisione del Soviet regionale, è stato fucilato Nicola II in un tentativo di fuga, mentre le truppe cecoslovacche si avvicinavano alla città». Il 20 luglio venne pubblicato a Ekaterinburg il decreto dell’eseguita esecuzione: «Decreto del Comitato esecutivo del Soviet degli Urali dei deputati operai, contadini e dell’Armata Rossa. Avendo notizia che bande cecoslovacche minacciano Ekaterinburg, capitale rossa degli Urali, e considerando che il boia coronato, qualora si desse alla latitanza, potrebbe sottrarsi al giudizio del popolo, il Comitato esecutivo, dando corso alla volontà del popolo, ha decretato di procedere all’esecuzione dell’ex zar Nikolaj Romanov, colpevole di innumerevoli crimini sanguinosi ».  

Il Soviet di Mosca negò per molto tempo lo sterminio dell’intera famiglia, comunicando la sola fucilazione dello zar, inventandosi “un tentativo di fuga”. I resti nella cava saranno portati alla luce solo al crollo dell’Unione Sovietica. Contemporaneamente, nella notte tra il 17 e il 18 luglio 1918, nella località di Alapaevsk, sempre nella regione degli Urali, sono passati per le armi in una miniera: la granduchessa Elizaveta Fedorovna, sorella della zarina, il granduca Konstantin Konstantinovič, il granduca Igor’ Konstantinovič, il granduca Ivan Konstantinovič, il granduca Sergej Michajlovič, suor Varvara Jakovleva ed il principe Vladimir Pavlovič Paley’. 

(Da: Henri Troyat, Nicola II. L’ultimo zar e la tragica fine dei Romanov, trad. di Beppe Gabutti, Paoline Editoriale, 2001; https://www.corriere.it/extra-per-voi/2017/03/27/ekaterinburg-1917-cosi-mori-nel-sangue-dinastia-romanov.html;https://it.wikipedia.org/wiki/Nicola_II_di_Russia; https://it.wikipedia.org/wiki/Fine_dei_Romanov;https://www.altezzareale.com/2018/07/13/tutti-gli-articoli/dinastie/russia/la-strage-di-ekaterimburg; Maurizio Carvigno, Eccidio dei Romanov. Il sangue di Ekaterinburg e la tragica fine di una dinastia, 9 luglio 1918, in  https://www.passaggilenti.com/fine-dei-romanov-eccidio-ekaterinburg; Marina Adrianopoli, Dall’Ufficio di Lenin venne un ordine: uccidete i Romanov,inhttp://win.storiain.net/arret/num107/artic6.asp).

Il 20 luglio commenterà un quotidiano di Ekaterinburg: “L’assassino di tutte le Russie è stato giustiziato al pari di un qualsiasi brigante. Nicola il sanguinario non c’è più”.  Per evitare che il potere bolscevico potesse essere oscurato dai fantasmi del passato, il nome dei Romanov fu cancellato da ogni luogo e da ogni scritto per decenni. Era vietato parlarne e farvi ogni tipo di riferimento. Mosca non intendeva misurarsi con menzogne, crimini, errori e ferite aperte.

Trotzkij nel suo diario del 1935, scriverà:

“In fondo, questa decisione era più che ragionevole, era necessaria,  non semplicemente allo scopo di far paura, di spaventare il nemico, di fargli perdere ogni speranza, ma allo scopo di elettrizzare i nostri ranghi, di far comprendere che non era possibile un ritorno all’indietro, che avevamo davanti a noi solo una vittoria totale o una morte certa”. 

 Odio esasperato e spietata, feroce voluttà omicida. L’efferata utopia comunista totalitaria cominciava a mietere le sue vittime in nome di una palingenetica rivoluzione radicale e di una ingegneria sociale tanto folle quanto l’economia pianificata, integralmente statalizzata. Se il movente dell’assassinio dello zar e dello zarevic, quale diretto erede al trono, si può far ascendere a crudi motivi politici, nel clima di totale incertezza vissuta dal governo bolscevico durante la delica fase della guerra civile, risulta del tutto incomprensibile ed insensato l’omicidio delle altre nove persone, adolescenti compresi, solo per rimanere all’eccidio più noto. La strage di Ekaterinburg è, infatti, da vari storici considerata come il preludio dei massacri del XX secolo.

Nel luglio del 1998 Boris Eltsin decide di dare finalmente una degna sepoltura ai resti della famiglia imperiale uccisa ad Ekaterinburg e rintracciati dallo storico Aleksandr Avdonin nel 1979. Dopo esami sul Dna, condotti anche grazie alla collaborazione decisiva del duca di Edimburgo, la cui nonna Vittoria d’Assia era la sorella maggiore della zarina, vennero identificati con certezza i resti, anche se rimasero alcuni dubbi sugli ultimi due figli di Nicola, Anastasia ed Alessio. Nel 2007, nella regione degli Urali, furono rinvenuti i resti di due ragazzi, accanto ai quali vi erano pallottole e boccette di acido solforico (usato per occultare i cadaveri). Gli esami del DNA, conclusi e resi pubblici il 16 luglio 2008, hanno poi confermato che le ossa ritrovate sono quelle della granduchessa Anastasia e dello zarevic Alessio. La famiglia dello zar, assassinato a 50 anni, oggi riposa riunita a San Pietroburgo, nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo sull’isola Zayachij, nell’antica capitale già ribattezzata Leningrado. L’esame del DNA ha messo fine alle leggende sulla fine dei Romanov, sulla “sopravvissuta” Anastasia, in primo luogo. Non si salvò nessuno in quella tragica  notte nella Casa di Ipate’ev.

Il 17 luglio 1998 furono celebrati solenni funerali per quei morti innocenti che poi la Chiesa Ortodossa Russa canonizzerà. Ma nello scorso dicembre è stato annunciato che un comitato d’inchiesta nominato dal Cremlino formerà una Commissione Speciale – formata da storici e da membri della Chiesa Ortodossa – per stabilire la verità sulla terribile strage di Ekaterinburg indagando (parole pronunciate dal vescovo Tikhon, segretario della Commissione patriarcale per i risultati degli studi sui resti imperiali) sulla ipotesi che lo sterminio dei Romanov sia stato «un omicidio rituale». Il riferimento è alla cosiddetta «accusa del sangue», pezzo forte dell’antisemitismo, come hanno subito sottolinato l’indignata comunità ebraica russa e la lobby sionista  mondiale. L’idea dell’omicidio rituale della famiglia dello zar non è certo nuova. Gli accusatori degli ebrei negano la veridicità della versione del massacro varie volte ripetuta in occasioni pubbliche dal capo degli stragisti Jurovskij, morto nel 1938, e dall’altro membro del gruppo di fuoco Piotr Ermakov, che tenne sul tema conferenze in scuole e fabbriche fino al suo ultimo anno di vita, il 1952. 

Secondo costoro, quella notte di quasi cento anni fa nella Casa Ipat’ev a Ekaterinburg fu inscenato un grottesco omicidio rituale ebraico. Tesi, peraltro, sostenuta anche in taluni ambienti israelitici già all’epoca, cioè una vendetta consumata scientemente per vendicare i correligionari assassinati durante il regime imperiale. Sullo sfondo la cosiddetta ‘Questione ebraica nell’Impero russo’, il periodo che va dalla prima annessione di territori della Confederazione polacco-lituana, a fine Settecento, passando per l’attentato del 1881 ed il conseguente decesso dello zar Alessandro II, quando, essendo la maggior parte dei terroristi d’origine ebraica, si fanno strada la tesi del braccio armato di un ipotetico governo occulto ebraico per il dominio della Russia cristiana e l’idea del giudeo sfruttatore del popolo negli strati sociali più bassi.  I pogrom del biennio 1881-1882, e l’emigrazione massiccia oltreoceano di popolazioni ebraiche, maggioritariamente povere, convincono Lev Pinsker, uno dei più importanti intellettuali ebrei, direttore del quotidiano Sion, a manifestare la rinuncia alla missione di avvicinare le due nazioni,  gettando le basi del sionismo.

(1914. Sul fondo scuro risaltano i visi di quattro graziose adolescenti, vestite elegantemente con abiti chiari, perle, i lunghi capelli. Sono le giovani granduchesse Olga, Tatiana, Maria ed Anastasia Romanov; con il fratello Alessio, l’erede al trono malato di emofilia,  ed i genitori, Nicola II, l’ultimo zar di Russia, e la zarina Alice d’Assia, principessa tedesca, ribattezzata Aleksandra Fëdorovna Románova al convertirsi alla Religione Ortodossa).

La parabola di Nicola II Romanov, l’ultimo imperatore di Russia, ebbe inizio il giorno in cui il padre, Alessandro III, morì di nefrite. Un ragazzo, poco più che ventenne, si trovò sul trono del Paese più grande del mondo il 20 ottobre 1894. Il gigantesco Alessandro aveva trasmesso al giovane Nicola il senso di ‘Autorità per Grazia di Dio’, di sicurezza, di stabilità, una roccia capace di reggere le spinte inevitabili della società russa. Il decesso prematuro del sovrano porta però sul trono un ragazzo spaventato ed impreparato al ruolo di “Autocrate di tutte le Russie”, del quale pure è fervido sostenitore. Schivo, timido, serioso, Nicola era nato il 6 maggio 1868. Fin da piccolo mostra un carattere chiuso, tendente alla malinconia. Dal padre eredita anche le propensioni reazionarie (dopo le aperture e le riforme del nonno Alessandro II) e, purtroppo, quelle tendenze slavofile e russofile che avevano indotto all’alleanza con la Francia in funzione antitedesca (nel 1907, risolto il contenzioso persiano, si sommerà il Regno Unito) e che costituiranno, assieme alle mire espansionistiche, uno dei detonatori della WWI nel 1914. 

Il regno inizia male. Il 18 maggio 1896,  quattro giorni dalla solenne incoronazione, tenutasi tradizionalmente a Mosca, fervono nel campo di Chodynka i festeggiamenti in onore del nuovo zar; vengono allestite tende, tavoli con delizie di ogni tipo, fra cui gustosi dolci. La folla è grande  e preme per arrivare alle leccornie. Improvvisamente la pressione esercitata è tale che in parecchi iniziano a cadere. In pochi istanti si scatena il panico; moltissime persone vengono calpestate. All’alba la conta dei morti, in quella che avrebbe dovuto essere solo e soltanto una festa, è terribile. Oltre mille e trecento persone e più o meno altrettanti sono i feriti. 

In Russia lo zar non è un semplice sovrano, ma un padre, una guida, quasi una divinità. Per Nicola II il potere non è divisibile; l’autocrazia – vale a dire l’assolutismo monarchico, un concetto che in Europa appare superato ed anacronistico – è qualcosa su cui non è possibile mediare, nonostante le spinte in senso opposto non siano marginali. Il Rossiyskaya Imperia su cui Nicola regna, in quel lembo di secolo che sta finendo, è un Paese sconfinato, complesso. Alla significativa crescita economica, specie nel settore dell’industria pesante ed in quella dei trasporti ferroviari (Transiberiana), si contrappone una irrazionale stasi politica. Il sistema di potere russo non si accorge che sulla scena sociale si sta affacciando un nuovo soggetto, quel proletariato che chiede condizioni di lavoro dignitose, aumento dei salari ed orari più umani, e che fuori dai confini russi sta già determinando la storia. Ed un ceto colto, professionale – borghese o proveniente dalla stessa aristocrazia – desideroso di rappresentatività politica e di riforme in senso liberale.

Il 9 gennaio 1905 il regno di Nicola II si tinge ancora di sangue. È mattino quando migliaia di russi si dirigono verso il Palazzo d’Inverno. Fra loro donne, vecchi, bambini, operai ed in testa il Pope Gapon che, di quella pacifica e oceanica manifestazione, composta da oltre cento mila  persone, è l’ideatore. Il corteo si muove verso la residenza dello zar, implora pane e condizioni di vita migliori. La capitale da settimane è attraversata da scioperi. La situazione è tesa, ma quella domenica il desiderio pare limitarsi a chiedere aiuto al “Piccolo Padre”. Molti manifestanti issano oltre alle sacre icone anche i ritratti dell’imperatore, pure se Nicola non è nel palazzo, trovandosi a Carskoe Selo. Ma i soldati schierati a difesa del palazzo imperiale, spaventati, improvvisamente perdono la testa e sparano sulla folle inerme, compiendo un’autentica carneficina. Più di mille morti insanguinano la neve. La plurisecolare alleanza fra lo zar e il suo popolo viene drammaticamente recisa. La “domenica di sangue” costituisce uno dei motivi della futura vendetta dei rivoluzionari, il prologo dello sterminio della famiglia imperiale, anche se le responsabilità di Nicola in quella drammatica giornata non furono mai chiarite. Ma il dado, ormai, era tratto. 

Oltre ai contadini, per lo più vivendo in stato di estrema povertà, la cui sorte non era migliorata dopo la fine della servitù decretata da Alessandro II nel 1861, si era formato un consistente proletariato industriale negli ultimi decenni del XIX secolo, il quale, staccatosi dai piccoli villaggi, ora affollava le periferie delle grandi città. I lavoratori incominciarono ad organizzarsi in sindacati, dichiarati illegali e fortemente ostacolati dal governo, e diedero vita ai primi scioperi, il più importante dei quali culminò nella rivoluzione del 1905 e nella formazione del primo Soviet di San Pietroburgo. Di fronte alla crisi dei poteri, incapaci di riportare l’ordine, sorsero spontaneamente in molti centri, i Soviet (termine russo che significa “consigli”), cioè rappresentanze popolari elette sui luoghi di lavoro. Il più importante era quello di San Pietroburgo, il quale assunse la guida del movimento rivoluzionario nella Capitale e si trovò a esercitare un notevole potere di fatto in tutta la Russia. 

Nell’ottobre 1905, lo zar pubblicò quello che venne poi chiamato il ‘Manifesto di Ottobre’ con cui concedeva una Costituzione e proclamava i basilari diritti civili per tutti i sudditi. Tra le altre cose il documento prevedeva l’elezione di una Duma, ossia di un parlamento, anche se con poteri  limitati.  Il  principale  limite  ai  poteri  della  Duma  risiedeva  nel  fatto  che  i  ministri  continuavano ad essere responsabili solamente di fronte al sovrano, come in Germania. 

La guerra col Giappone dello stesso anno, per il controllo di Manciuria e Corea, era peraltro  stata una catastrofe e la Santa Madre Russia aveva dovuto perfino cedere dei territori al nemico orientale. Nicola II si mostrò incapace di analizzare e fronteggiare i bisogni della collettività e guardava con orrore ogni ipotesi di sovvertimento dell’assetto statale. Era stato educato al più totale rispetto della disciplina e dell’ordine, della integrità fisica e morale. Questa formazione, unita al carattere sommesso e mansueto dell’erede, aveva generato una personalità inadatta al governo dell’impero in quella fase storica. I russi aspiravano ad un cambio radicale dello status quo ed avevano intrapreso la strada del cambiamento. Nicola era sordo a quei richiami. Dedicava il suo tempo all’esercizio fisico, trascorreva le sue giornate con la famiglia, trascurando gli affari di Stato se non per occuparsi delle parate militari, che tanto gli erano care e che lo proiettavano nel mondo in cui era cresciuto, dove si sentiva al sicuro. Ambiva a vivere una vita tranquilla e armoniosa in famiglia, lontano dalla mondanità alla quale era costretto. Alla fatale debolezza ed introversione del sovrano si aggiungeva l’influenza che la moglie esercitava su di lui. La zarina aveva una mentalità retrograda che poggiava su di un carattere irritabile, pessimista, tendente alla depressione. Si prodigava in opere filantropiche, spesso si recava negli ospedali per curare i malati ed, infatti, molte fotografie la ritraggono con la divisa da infermiera, ma tale fervore caritatevole può essere attribuito a fanatismo religioso, da Ancien Régime. Con queste premesse la zarina, che possedeva un temperamento più autoritario del marito, impose la sua linea conduttrice al governo, sostituendosi spesso al consorte in ciò che considerava a tutti gli effetti una missione divina: la conduzione e salvaguardia della Santa Russia.

La figura dello zar smarrisce progressivamente  popolarità ed a tale perdita contribuisce anche l’ascendente  del rozzo monaco Gregorio Rasputin, entrato a Corte nello stesso 1905 sulla scorta di supposte doti di guaritore che avevano convinto la zarina, preoccupata per la salute del figlio Alessio, affetto da emofilia. Forse egli possedeva delle doti ipnotiche che effettivamente riuscivano a bloccare pericolose emorragie sempre in agguato, ma il suo ascendente sulla famiglia imperiale fu malvisto in tutti gli ambienti, tant’è che fu assassinato nella congiura allestita da un parente dello zar, il principe Yusúpov, nel 1916, con la collaborazione dei Servizi Segreti Britannici, timorosi che il monaco convincesse lo zar a ritirarsi dal conflitto in corso.

Per la verità, Rasputin aveva cercato di dissuadere Nicola II dall’entrare in guerra contro la Germania e l’Austria-Ungheria nel 1914. Ma l’imperatore aveva preferito non credere a quei tristi vaticini, facendosi prendere da uzzoli bellici e sedurre dallo Stato Maggiore, certo che la guerra, da tutti pronosticata come breve, avrebbe consacrato il potere della Russia e suo. La realtà fu drammaticamente differente, anche se per un attimo lo zar ritrovò il calore del suo popolo. Il conflitto è da subito, per tutti i contendenti, ben diverso da quanto preconizzato. La guerra lampo si trasforma in pochi mesi in penosa guerra di trincea e nessuno più crede alla possibilità che finisca rapidamente. È la Russia a pagare il prezzo più alto di quel folle conflitto. Nonostante l’esercito russo sia di gran lunga il più numeroso, fin dalle prime battaglie l’impreparazione appare evidente, la logistica macchinosa, antiquata, carente. Tutto precipita. 

Nel febbraio 1917, la miccia della rivoluzione si accende. La gente a San Pietroburgo scende in piazza. Ad incendiare le polveri della protesta sono le donne, le operaie stanche della miseria, della guerra, della fame. E così un ruscello diventa un fiume impetuoso che rompe gli argini, che cambia la storia. Le truppe solidarizzano e si sommano ai manifestanti. Il 2 marzo, al mattino, Nicola, sul treno imperiale, riceve sul binario di Pskov il generale Nikolai Ruzkij, comandante del fronte settentrionale. Questi riferisce al sovrano del lungo e precedente colloquio con Michail Rodzjanko, presidente della Duma. L’alto ufficiale suggerisce a Nicola II di abdicare. È la soluzione migliore per tutti, per salvare la corona. Lo zar, seppur malvolentieri, accetta di rinunciare al trono. Sulle prime Nicola pensa di farlo a favore del figlio tredicenne Alessio, ma il medico di corte lo sconsiglia. L’erede al trono è malato e mai potrebbe sostenere una simile responsabilità. Per questo il sovrano abdica a favore del fratello Michele, ma questi rifiuta la corona, subordinandola all’elezione di un’Assemblea Costituente. Ciò non gli salverà la vita.

È la fine della dinastia dei Romanov. Nicola II sul suo diario appunta quel giorno: “Attorno a me solo tradimento, viltà e inganno”. Il 9 marzo l’oramai ex sovrano arriva finalmente alla residenza imperiale di  Carskoe Selo. La famiglia è in stato d’arresto ed i beni confiscati. Ha inizio l’ultimo capitolo di una storia fatta di errori, sangue, morte. Da Zurigo, intanto, un treno sta per  muoversi. Su di esso c’è Vladimir Il’ič Ul’janov, Lenin. L’esponente bolscevico arriverà a San Pietroburgo il 16 aprile 1917, dopo un lungo viaggio, blindato e protetto dal nemico tedesco, che conta sull’approfondimento della rivoluzione russa per vincere la guerra sul fronte orientale. Decisione astuta che non tiene in conto la forza di propagazione del bacillo rivoluzionario, ben oltre quelle frontiere. Fuori da Carskoe Selo tutto è in rapido divenire. Mentre la guerra imperversa in Europa, il prestigio di Lenin e dei bolscevichi cresce, al contrario di quello del Governo Provvisorio che, nonostante il cambio al vertice (dal principe Georgij Evgen’evič L’vov al socialista moderato,  ‘menscevico’, Alexander Kerenskij), ha i giorni contati. 

Nicola Romanov ha, ormai, solo il grado di colonnello dell’esercito. È un uomo profondamente solo e preoccupato, oggetto di burla da parte dei suoi custodi. Sono passati quattro mesi dal giorno in cui la famiglia è stata arrestata. Le condizioni di vita non sono delle peggiori, ma serpeggia sempre più il nervosismo, figlio dell’inazione degli Alleati, di quelle teste coronate, con in testa Giorgio V d’Inghilterra, che non fanno nulla per liberarli. Tutte le trattative per evacuare lo zar e la sua famiglia “furono soltanto un gioco, un gioco fatto di buone intenzioni, per tacitare la propria coscienza”, è stato scritto. Del destino dei Romanov, in realtà, importa poco a tutti. Prima dei legami di sangue viene la convenienza nazionale. 

Nelle  sue  memorie  Kerenskij  afferma  il  pressoché  completo  disinteresse  del  Governo Provvisorio verso la dinastia. Chiusa l’inchiesta tesa a chiarire la presunta collaborazione della zarina con i tedeschi, il Governo Provvisorio avviò uno scambio di telegrammi con i governi alleati. Dopo il diniego di britannici e francesi di fronte a un eventuale esilio dei Romanov nei loro Paesi, Kerenskij, per ragioni di sicurezza, decise di trasferire la famiglia a Tobol’sk. Il 31 luglio la famiglia imperiale lascia la residenza di Carskoe Selo. Inizia così un lento e triste peregrinare che finirà un anno dopo e tragicamente per quella che era stata la più potente dinastia del mondo. A San Pietroburgo il governo Kerenskij ha i giorni contati. Nella notte fra il 24 e il 25 ottobre 1917, i bolscevichi prendono in mano i punti strategici della capitale. Stazioni, centrale telegrafica, ponti, strade e, naturalmente, il Palazzo d’Inverno. Gli avvenimenti si susseguono quasi senza resistenza. Troppo organizzati i bolscevichi, che puntano alla pace ad ogni costo ed all’uscita dal conflitto, ciò che vuole il popolo; troppo deboli le forze governative. 

La Rivoluzione d’Ottobre segna in modo drammatico le sorti della Russia, scrivendo la definitiva pagina del potere dei Romanov. Se per Kerenskij la possibilità della liberazione degli ostaggi poteva essere presa in considerazione, ora che a reggere i destini della Russia ci sono Lenin ed i bolscevichi, il destino di Nicola e della sua famiglia è segnato. Egli era ancora convinto di poter lasciare la Russia e trasferirsi a Londra, dove avrebbe ottenuto asilo dal cugino Giorgio V. Ma a Londra il timore di reazioni rivoluzionarie (nel 1916 c’erano state la sollevazione in Irlanda e la ‘Pasqua di Sangue’) convinse il re a chiedere al governo di Lloyd George di ritirare presto l’offerta d’asilo. Un antico adagio russo recita: ‘I Romanov o regnano nel sangue o muoiono nel sangue’, con riferimento alle cruente, truci vicende dinastiche durate almeno fino ad Alessandro I – il vincitore di Napoleone – sullo sfondo di un Paese tanto vasto quanto ancora  barbaro. Nicola rispettò entrambi i vaticini. Nel suo regno di 23 anni scorse molto sangue che alla fine tragicamente si mescolò con il proprio e quello della sua amata famiglia.

Ekaterinburg appare, cento anni dopo, come la conclusione della lunga lotta, senza quartiere, che populisti e nichilisti (e poi i bolscevichi ed altri socialisti) avevano intrapreso contro la dinastia Romanov ed il suo modello antiquato di Stato che non aveva voluto riformare. Ma l’eccidio fu contemporaneamente interpretato come una sorta di paradigma di una nuova (comunque antica) prassi dell’azione politica, come durante il Terrore nella Francia della Grande Rivoluzione, nel 1793 e ’94, o nei giorni della Comune Parigina del 1871. Anticipazione ed epitome di quel che sarà il criminale, malvagio, liberticida “socialismo reale” marxista-leninista, con i suoi delitti abominevoli e le immani sofferenze inflitte nell’URSS ed ovunque attorno a sé.

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Gianni Marocco

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