Cultura. Alì, Zaire 1974 e l’America: metti una sera a teatro con Buffa

buffaFederico Buffa non ha bisogno di presentazioni. Il suo modo di interpretare lo sport, di viverlo e di raccontarlo, dona al suo “interlocutore”, lettore o spettatore che sia, una infinita serie di emozione. Emozioni che, ben inteso, non sfociando mai nel momento patetico fine a sé stesso, sono convogliate ad un livello molto  alto.

L’attuale serie di spettacoli teatrali ne è la semplice dimostrazione.

“A Night in Kinshasa” infatti, non è solamente il racconto di uno dei più celebri incontri di pugilato, quello del 1974 tra Muhammad Ali e George Foreman. E’ molto, molto di più.

 Quando sport, storia, musica e cultura si intrecciano in un unico spettacolo, i risultati non possono essere che di eccelso livello.

C’erano aspettative elevate in vista della tappa romana del 7 Aprile, alla Sala Sinopoli all’Auditorium. Aspettative ampiamente ricambiate. Con novantacinque minuti tiratissimi, il giornalista-narratore milanese, coadiuvato dal pianista Alessandro Nidi e dal percussionista Sebastiano Nidi, ha contribuito ad una serata veramente speciale, ricca di spunti e contenuti.

Il tutto, nel contesto di una concezione del teatro massimamente pirandelliana o brechtiana, dove la rottura della quarta parete crea un rapporto ancora più diretto tra spettatore e protagonisti.

Lo spettacolo non è dunque un racconto posticcio di un  incontro di pugilato ormai lontano ma è anche una profonda analisi psicologica di tanti uomini.

I fari puntati sulla platea danno l’inizio: le prime sequenze sono dedicate al ruolo dello sport nelle grandi dittature e alla figura di Mubutu. Mubutu, capo e dittatore dello Zaire (attuale Repubblica Democratica del Congo) per trentadue anni fino al 1997, è stato uno dei grandi dittatori del secolo scorso. Sostenuto dagli USA in funzione anti comunista, fu per esempio uno dei “grandi” amici di Ronald Reagan.

Mubutu aveva deciso di organizzare questo incontro per risollevare la visione del suo paese all’estero, dopo la sconcertante figura al Mondiale tedesco del 1974  (storica rimane la sconfitta per 9-0 inflitta dalla Jugoslavia), con conseguenti minacce agli stessi calciatori zairoti.

L’idea dunque è quella di mettere di fronte George Foreman e Ali, facendoli contendere il Titolo dei Pesi Massimi.

La narrazione si evolve mentre Buffa stende delle ideali corde, così da ricreare sul palco un ideale ring. Gli effetti sono particolarmente accurati, l’acustica della sala è talmente perfetta che sembra di ascoltare tramite  degli auricolari di ultima generazione.

Ovviamente non mancano dei momenti più strettamente di geopolitica: Buffa istruisce la platea sull’imperialismo belga e sugli oltre dieci milioni di morti fatti in Congo dall’allora governatore Leopoldo II; numeri che, se riportati nelle scuole, darebbero una nuova luce anche al nostro modo di intendere il ‘900.

Alcune scene sono più specificatamente dedicate ad Ali: e così scopriamo di un uomo che si chiamava Cassius Clay in onore di un possidente terriero che aveva affrancato gli schiavi ancora prima delle politiche di Lincoln, scopriamo che Clay si era convertito all’Islam dopo il primo titolo (divenendo Muhammad Ali) anche influenzato dal concetto di giustizia sociale presente in questa dottrina.

Buffa però, nel suo racconto, è bravo a mettere in luce un certa ipocrisia del pensiero liberal americano, in particolare su quello che allora era lo scottante tema della Guerra in Vietnam. Infatti di fronte al pressoché unanime no comment del fronte progressista, Ali era stato il primo a schierarsi contro quella guerra, e non solo facendo obiezione di coscienza  e rischiando cinque anni di carcere e la perdita di quel titolo del 1964. Di lui rimarrà, scolpita come nel marmo, la celebre frase :”Non ho nulla contro i Vietcong. Loro non mi hanno mai chiamato negro” (« I got nothing against the Vietcong, they never called me “nigger”»).

C’è posto anche per il racconto “più squisitamente telecronistico” della lotta, vinta da Ali sullo stesso Foreman, dopo un incontro sudato e tirato fino all’ultimo colpo.

Nell’ora e mezza di narrazione, non c’è sinceramente neanche  mezzo secondo di tempo per annoiarsi. Benché Buffa scelga di ridurre il numero di battute per minuto, in netta controtendenza con le televisioni commerciali, le quali pur di dirti di tutto e di più fagocitano i tempi tecnici della narrazione, il doppio filo che lega chi recita e chi ascolta e sempre molto molto solido. Anche la scelta di non fare l’intervallo, per non spezzare questo clima, appare molto azzeccata.

Tra i tanti aspetti lasciati emergere inoltre, c’è il ruolo che in quel periodo giocava l’Fbi nelle vite di tutti i giorni. Ruolo che avrebbe nettamente battuto la Stasi nella Ddr.

Tutti aspetti che troppo spesso si vuole omettere, sebbene noti e storicamente fondamentali. L’odierna industria culturale, troppo spesso  figlia del pensiero americano centrico post 1989, tralascia volentieri tante ombre, fornendo della storia una visione davvero mistificatrice.

Buffa no. Da buon giornalista e conoscitore del mondo e della cultura americana, sempre con l’evento sportivo alle spalle,  semplicemente si lancia nel raccontare tante piccole verità che non compaiono neanche nei manuali scolastici.

Se dunque è vero che la realtà è idealtipica (come direbbe Max Weber) e che non esistono verità assolute, il nostro nei suoi 95 minuti ti fornisce tante piccole perle – dal Vangelo secondo Buffa- che, per gli amanti di un certo modo di vivere lo sport tutto, non possono che essere assunte come veri e propri dogmi.  E poi c’è il suo stile aulico e limpido, con quel linguaggio ricercato ma privo delle patine “alla Don Abbondio”. Durante lo spettacolo si è letteralmente portati in una dimensione totale, caratterizzata da un fortissimo coinvolgimento ma anche da un genuino stupore.  Il lunghissimo applauso al termine dello spettacolo non può che esserne una degna conseguenza.

@barbadilloit

Lorenzo Proietti

Lorenzo Proietti su Barbadillo.it

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