Cultura. Viaggio negli abissi, oltre il sipario dell’agire mondano

assenzio 1Io vivo di ciò che gli altri ignorano di me.
Peter Handke

Si può ben dire che uno dei mali del nostro secolo è l’indigestione di scienza. Senza scomodare filosofi dimenticati o traditi riesce evidente, nella nostra epoca, che ad una conoscenza sempre più ampia del mondo e delle sue realtà, non corrisponde una conoscenza, nell’individuo, altrettanto rilevante della sua esistenza.

Nel dramma Les batisseurs d’empire di Boris Vian -che con il suo umorismo nero intristiva la condizione umana e intorbidava il corso della vita, secondo Jean-Paul Sartre, dal nulla da cui veniamo e verso cui andiamo– la famiglia Dupont è perseguitata da uno strano rumore. Continuo. Imprecisato. Greve. Simbolo uditivo della morte. Confinata in un edificio qualunque, ogniqualvolta sopraggiunge tale rumore, la famiglia è costretta a salire di un piano all’altro finché l’ultimo rimasto, il padre, giunto in cima all’edificio, si ritrova dinnanzi a sé stesso, specchio di un’esistenza concretizzata nell’uomo-bestia insultato e battuto da tutti. Lassù, egli confesserà che gli è sempre sfuggito il vero senso delle cose e per non scoprirne l’origine ed il fondamento si era costruito, batisseur d’empire, un impero di parole per non sentire ora la paura del nulla, ora la solitudine, ora quel sentimento istintuale qual è l’angoscia.

Ecco che quando il ciel basso e greve pesa come un coperchio | sul cuore prigioniero di noie ininterrotte, scrive Charles Baudelaire, si sviluppa, tra le spire di un’incomunicabilità disumana, la nevrosi ossessiva del nulla. Ma dall’angoscia alla nausea il passo non è poi così lungo e l’esistenza ingiustificata e salmastra dei nostri simili appare indifferente se non addirittura disturbante. Non fu proprio Garcin, uno tra i protagonisti di A porte chiuse, di Jean-Paul Sartre, a gemere sull’orlo dell’esasperazione che lenfer sont les autres! – l’inferno sono gli altri?

Quando si parla di nausea è impossibile non far accomodare proprio J.P Sartre al nostro tavolo. Come tutti gli uomini, anch’egli è impossibile ed assurdo, per quanto differisca da chiunque altro per essere in grado di saper divulgare tale impossibilità. E lo fa mandando alle stampe La Nausea. Dio è morto, scriveva Nietzsche; al suo posto, il filosofo francese, vi ha posto Antoine Roquentin, protagonista del romanzo dai caratteri largamente autobiografici, uomo conscio di essere di troppo e che, dunque, si diluisce, si dissipa… ma non si dimentica mai. Antoine Rouquentin è Sartre stesso ma è anche il già citato Baudelaire; il mondo della nausea del filosofo parigino è il mondo dello spleen del poète maudit. Entrambi sono uomini condannati a dover vivere, nemmeno eroi decaduti di quella natura, intermedia e pascaliana, tra l’angelo e la bestia; ma se anche solo in un attimo della loro vita ebbero coscienza di Dio e di Satana, distrussero l’umano anteponendo al desiderio di innalzarsi la voluttà di discendere nell’animalità. Baudelaire ha sempre avuto la sensazione dell’abisso, della voragine dell’azione e del desiderio. Incomunicabile, incerto, inutile, abbandonato e condannato a dover giustificare la propria esistenza. Pur sentendo la necessità d’agire, l’azione è, tanto per Roquentin quanto per Baudelaire, un peso troppo grande. Eccezionale intuizione metafisica della propria inutilità! Non intraprendere nulla per trasformare la vita in destino, la non-scelta che si configura inesorabilmente in un’altra: essere bastian contrario all’uomo faber, borghese per eccellenza, per il quale ad ogni azione corrisponde un’azione uguale e contraria.

Possiamo però spiegarci in un modo un po’ più esauriente. Cosa ha relegato l’umano in una prospettiva tanto angusta?

In realtà è impossibile trovare la risposta ultima -ed unica- in grado di colmare appieno le mancanze esistenti, acuite oggi dalla frenesia dell’istantaneo e dall’assillo dell’obsolescenza, per dare dunque una spiegazione soddisfacente all’interrogativo appena posto. Qui non si vuol affatto prendere le distanze da Sartre o da Baudelaire, né si vuole allontanare il dolore come differenziazione per vivere all’infuori della propria traumatica unicità. La breve ed umile riflessione che segue spera d’afferrare l’inafferrabile. Talvolta accade che il mondo appaia irreale (si esprime in modo diverso), talaltra appaia de-reale (si esprime con difficoltà). L’irreale si può esprimere con discreta facilità attraverso il cinema, i romanzi, le poesie. Il de-reale no. Se lo si esprimesse, se si provasse a definirlo, anche soltanto con una frase infelice, significherebbe uscirne. Nel primo caso il rifiuto che si oppone alla realtà si estrinseca attraverso una fantasia; tutto ciò che ci circonda muta di valore rispetto a una funzione, che è poi l’Immaginario. Ma, sebbene anche nel secondo caso vi sia una perdita di contatto con il reale, nessuna sostituzione immaginaria arriva a compensare la perdita; ogni cosa è cristallizzata, pietrificata, immutabile, insostituibile: l’Immaginario è così proscritto. Se tuttavia, mediante un atto di padronanza di scrittura, o soltanto d’osservazione silenziosa, si è in grado di esprimere questa morte, allora, forse, si riuscirà a provare una leggerezza mai avvertita, un profumo blando e dolciastro. Nessuna osservazione indagatrice, nessuna ipotesi, nessuna confutazione avranno allora luogo, giacché l’origine rifugge da quella scienza tanto acclarata che ha intriso le nostre vite di principi dell’utile incondizionato, tanto da diventarne paradigma d’ogni cosa; è soltanto una questione di attimi: la verità non è sperimentale. E se è vero che lo sguardo vive ancora prima del soggetto, allora il mondo stesso è uno sguardo. Sarà diverso -ma non difficoltoso- e le sensazioni radicalmente trasformate, lo spirito nient’altro che una fiammella accesa. Dormiremo? Saremo svegli? Oppure morti?

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Claudia Grazia Vismara

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