L’altra voce (di G.Malgieri). Scuola, spazio di ignoranza e bacino di disagio sociale

Female teenager student sleeping in classroom
Female teenager student sleeping in classroom

Anticipiamo l’articolo di Gennaro Malgieri che uscirà nel  fascicolo di settembre della rivista mensile di attualità politica e culturale “L’altra voce”, fondata dal compianto Domenico Longo, e diretta da Roxana Tilica Longo. Per informazioni l’indirizzo è rivistalaltravoce@gmail.com

 Le abituali  polemiche sulla scuola, annunciano  l’arrivo dell’autunno. Quest’anno sono più aspre del solito. La sentenza del Tar del Lazio che ha dichiarato illegittimi i test d’ingresso nelle facoltà  umanistiche dell’università di Milano ha gettato altra benzina sul fuoco. Una sentenza che assevera ancora di più l’orientamento verso la cancellazione di istituzioni formative improntate alla meritocrazia. Se la “scrematura” non comincia prima dell’ingresso nell’area di parcheggio universitaria, sarà fatale che si creeranno situazioni critiche per i singoli e per la società. Tutti abilitati alla frequentazione, e poi?   Poi non ci si deve meravigliare se la scuola e l’università degli asini sforneranno mostri che saranno comunque parte della classe dirigente, a tutti i livelli, del Paese, o disadattati che faranno della precarietà il loro stile di vita.

E’ una storia antica l‘abolizione del merito.  Risale agli anni Sessanta del secolo scorso, quando un patto scellerato tra i governanti di allora ed i sindacati pose le basi della decadenza dell’educazione scolastica in Italia. Vennero smantellate le strutture che avevano retto per molti decenni, buttate alle ortiche riforme razionali e funzionali, soprattutto quella che porta il nome di Giovanni Gentile. La “scuola degli uguali” come obiettivo dell’ideologia dominante al tempo e tutt’altro che morta ai nostri giorni, ha lacerato la società e creato disfunzioni difficilmente rimediabili. Tuttavia, accanto ad una massa di ignoranti rilevante vi sono studenti che interpretano a loro modo il diritto di istruirsi e docenti che, nonostante siano i più mal pagati d’Europa, con esemplare dedizione e sacrifici personali notevoli tengono in piedi la baracca.

Strutture scolastiche perlopiù fatiscenti accolgono ogni anno ragazzi e ragazze di tutte le età che non hanno nessuna voglia di prepararsi al futuro ben sapendo che difficilmente ne avranno uno uscendo da un sistema formativo che a tutto provvede tranne che a fornire indirizzi adeguati per scelte che possano risultare produttive. Così la scuola, lungi dall’innestare nelle giovani coscienze, quegli elementi necessari alla costruzione di uno spirito critico, risulta essere un luogo nel quale trascorrere inutilmente il tempo per i discenti e un gravoso onere per gli insegnanti che la frequentano tra indicibili incertezze, insoddisfazioni, incomprensioni.

La scuola italiana non piace a nessuno purtroppo, neppure a chi ha raccolto i frutti del lavoro (si fa per dire) di quei burocrati ministeriali che nel corso di circa cinquant’anni hanno messo una cura maniacale nel distruggerla  a colpi di riforme demagogiche delle quali si sono assunte le paternità i vari ministri succedutisi sulla poltrona del palazzone di viale Trastevere.

La scuola, passando per gironi infernali al punto da non capirci più niente tanto gli studenti che i docenti e le famiglie,  è diventata un laboratorio di inquietudini. Pochi studenti, dunque,  l’hanno affrontata e l’affrontano con lo spirito giusto e ne hanno guadagnato in termini culturali e civili; altrettanto pochi professori si sono immedesimati nel loro ruolo e hanno cercato di dare il meglio, fedeli a precetti morali e pedagogici diventati sempre più merce rara con il passare del tempo.

Dai cosiddetti «decreti delegati» che alla fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta incendiarono letteralmente il sistema scolastico, alle ultime riforme incomprensibili e contraddittorie, per non dire degli scarsi investimenti che nella formazione sono stati fatti da tutti i governi, è stata una sequela di occasioni mancate che hanno contribuito alla radicalizzazione della sfiducia e del disincanto. Se la scuola non è morta, certamente vive in uno stato di perenne agonia dal quale è difficile, a meno di un miracolo, immaginare che possa riscattarsi in tempi ragionevolmente brevi.

Inutile ricordarle, perché tutti le conoscono avendo vissuto sulla loro pelle il disastro scolastico, le tappe della dissoluzione di una delle istituzioni civili e culturali più prestigiose della storia unitaria italiana. Ci limitiamo a sottolineare come oggi raccogliamo i prodotti  avvelenati dell’egualitarismo esercitatosi soprattutto nelle politiche scolastiche che ha fatto da apripista all’appiattimento  più sconsiderato, mentre tutti invocano un ritorno alla meritocrazia. È questa un’esigenza reale, non vi è dubbio, ma i meccanismi attivati non consentono di raggiungere lo scopo. Uno dopo l’altro sono state distrutte, sotto i colpi di mannaia di pedagoghi ignoranti o, nella migliore delle ipotesi, funzionali a disegni politici tendenti all’omologazione delle giovani generazioni, quelle strutture formative che erano il vanto della scuola italiana. Ha cercato di resistere come ha potuto, grazie soprattutto a professori consci della loro “missione”, il liceo classico, ma poi ha dovuto cedere davanti al fuoco di sbarramento “innovativo” di riformisti d’accatto; le elementari, vanto del nostro Paese al punto di essere copiate da altre nazioni, hanno dovuto subire l’affronto che altri riformatori rivoluzionari hanno arrecato al primo luogo dove i bambini, uscendo dal guscio familiare, trovavano la proiezione dell’autorità genitoriale e si identificavano in essa: non era abbastanza per chi li voleva immediatamente alla prova di fronte alla durezza della vita e gli ha fatto trovare non un maestro “onnisciente”, ma tre, quattro, cinque docenti, con nessuna preparazione specifica, di fronte ai quali i piccoli alunni, sconcertati e disorientati, hanno preferito dedicarsi ai Puffi e a Tom e Gerry piuttosto che allo studio delle discipline tradizionali, troppo fuorvianti per le loro immature menti si è detto. Fino a quando è rimasto in piedi, sia pure con le doverose e opportune modifiche, l’impianto gentiliano, la scuola italiana ha funzionato. Abrogandolo, senza vararne uno adeguato che lo sostituisse, ci siamo ritrovati nelle deprecabili condizioni che lamentiamo e ogni anno, con l’addio delle rondini diciamo addio, varcando la soglia dei «plessi» (si chiamano così ora) scolastici, anche alle speranze di avere un giorno, grazie all’insegnamento ricevuto, giovani in grado di affrontare la vita e prepararsi magari all’ingresso nell’Università.

Già, l’Università. Noi sappiamo quali menti obnubilate dalla demagogia prepararono il piatto disgustoso ed indigesto della riforma elevando banali insegnamenti (perfino complementari) a corsi di laurea, per poi aggiungere che queste potevano essere brevi o lunghe, a seconda di quello che si voleva fare in seguito. Ne è seguito un marasma dal quale nessuno è in grado di uscire.

Come nella scuola, sono scontenti, delusi, arrabbiati, i professori e gli studenti. Per non dire dei laureati dei quali solo uno su cento trova la strada di una professione coerente con il titolo conseguito. Chi poi, appassionandosi agli studi, volesse imboccare la via della ricerca, non ha che da fare le valigie e guadagnare l’uscita dai confini nazionali poiché non ci metterà molto a concludere che in Italia è impossibile applicarsi a una tale attività dal momento che manca tutto, a cominciare dalle strutture adeguate e dai mezzi finanziari che lo Stato nega ai ricercatori senza neppure far finta di nasconderlo. Un Paese che non produce ricerca, che chiude gli istituti di cultura, che non forma i giovani è un Paese destinato alla decadenza.

Il burocratismo, sovrappostosi alle degenerazioni ideologiche, ha completato l’opera. Non troverete in nessuna legge una logica che travalichi il ragionieristico computo della spesa e della resa. Vi imbatterete in conti indecifrabili, ma non in un’idea di formazione che, per quanto criticabile, possa rappresentare un orientamento nell’insegnare tanto nella scuola che nell’Università. Eppure, per quanti problemi abbiamo, se non si mette mano, con serietà, a una riforma globale di tutto il comporto formativo, dalle materne alla ricerca scientifica e umanistica, risulterà vano ogni tentativo di dare un minimo di ordine alla nostra società. La scuola non è un’appendice della politica, come pure è stata considerata. Essa è verosimilmente il cuore delle comunità che intendono crescere e svilupparsi. Ci importa poco delle motivazioni che ogni ministro adduce a giustificazione dei suoi risibili interventi che si sovrappongono a quelli precedenti; e ancora di meno c’interessano le cifre che i ministri dell’Economia sciorinano per farci comprendere come alla scuola non si possono destinare che briciole. Resta il fatto che i progressi dell’ignoranza anticipano l’anarchismo sociale.

Di fronte ad una così vasta opera di demolizione è difficile immaginare una ricostruzione anche perché manca lo spirito riformatore giusto. Eppure, per tentare di “rinnovare” forse sarebbe il caso di ripristinare la tradizione educativa coniugata con i nuovi strumenti e le tecnologie che possono supportare la formazione senza sopraffarla o svuotarla. Ciò vuol dire innanzitutto puntare sulla qualità dell’insegnamento abbandonando il pedagogismo progressista fondato sulla deprecata visione egualitaria. Ed inoltre ristabilire l’autorità dei docenti oggi degradati, nell’immaginario della gente, a impiegati di serie C. Tornare al passato, insomma, per guadagnare l’avvenire. Utopia?

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Gennaro Malgieri

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