Effemeridi. La storia di Jesse Owens e la fake news della mancata stretta di mano con Hitler

Jesse Owens
Jesse Owens

12 Settembre 1913. A Oakville, in Alabama nasce il futuro atleta Jesse Owens.
Ebbe un’infanzia caratterizzata da estrema povertà dalla quale riuscì ad uscire grazie alle sue capacità fisiche che gli consentirono di emanciparsi, già da bambino, dai lavori di fatica ai quali era costretto per aiutare la famiglia; potè quindi raggiungere anche l’obiettivo di studiare all’Università dell’Ohio.
La conquista del record del mondo di salto in alto nel 1935 e gli ottimi risultati in altre discipline atletiche gli aprirono la strada per entrare a far parte della squadra statunitense che partecipò alle Olimpiadi estive di Berlino del 1936.
Ciò che avvenne in quella occasione lo rese famoso – e lo è tutt’ora – più per la vicenda della “mancata stretta di mano” da parte di Hitler che per l’eccezionale bravura sportiva che sarebbe stata destinata a diluirsi nei decenni nella memoria collettiva, come avviene per buona parte dei campioni.
Anche in questo contesto ogni tanto qualche amico cita l’episodio “politico” dando per scontata una vicenda che invece ebbe ben altra dinamica. Una delle tante pagine stravolte dalla faziosità che nel tempo si stratifica grazie a superficialità e ignoranza fino a cambirare completamente di segno.
Per amor di verità, e solo per questo, cogliamo l’occasione di questa data per rimettere a posto le cose.
Saltiamo quindi atleticamente a piè pari la lunga serie di fatti che pure furono la premessa dell’avvenimento: l’antisemitismo tedesco con relative leggi razziali che diamo per scontato essere noto a tutti.
E saltiamo pure la narrazione di tutto il lavorìo internazionale da parte di varie organizzazioni per impedire i Giochi a Berlino.
Una particolareggiata narrazione in proposito ci porterebbe troppo lontano e ben al di là dei limiti di sopportazione dei lettori di queste “effemeridi”. Quindi ci limitiamo a dire che la scelta di giocare le Olimpiadi del 1936 a Berlino era stata presa ben prima dell’ascesa al potere del nazionalsocialismo, avvenuta nel 1933.
La candidatura della Germania era stata presentata all’assemblea del CIO nell’aprile 1927 e la scelta fu fatta dal Comitato Olimpico Internazionale nel 1931 con 43 voti favorevoli su 86.
Dopo la nomina di Adolf Hitler a Cancelliere (30 gennaio 1933) fu montata una campagna internazionale, con focolaio iniziale a New York, mirante a spostare altrove il Paese dei Giochi del 1936 (non solo quelli estivi di Berlino ma anche quelli invernali di Garmish Partenkirchen nelle Alpi Bavaresi) o, in via subordinata, ad indurre atleti e Paesi a boicottare e contestare i Giochi al fine di annullare la loro partecipazione e quindi l’Olimpiade stessa.
Dopo una lunga serie di polemiche e anche di violenze, la scelta di giocare in Germania fu infine confermata dal CIO e dalla sua sezione americana per bocca del suo Presidente Avery Brundage.
Nel pieno della campagna mediatica americana entrò in scena ad un certo punto anche Jesse Owens che, intervistato da una rete radiofonica, affermò che “Se in Germania c’è una discriminazione contro le minoranze, allora ci dobbiamo ritirare dalle Olimpiadi”.
Una dichiarazione che esaltò i contestatori ma che poco dopo Owens rettificò. In realtà l’atleta non vedeva l’ora di partecipare alla competizione olimpica e nel dicembre 1935, assieme ad altri cinque atleti neri comunicò che se fosse stato selezionato per partecipare, sarebbe partito senza alcun problema per Berlino.
Tutte le polemiche, la campagna mediatica e anche le manifestazioni – tra quelle violente, nel 1935, capitò anche che una folla di cinquemila manifestanti assaltasse una nave tedesca nel porto di New York e ne stracciasse le bandiere buttandole a mare – con la relativa incertezza sul luogo di svolgimento delle Olimpiadi costrinsero ad un ritardo nell’avvio dei lavori di allestimento dei luoghi delle gare e di accoglienza per sportivi e spettatori provenienti da tutto il mondo.
Nonostante ciò, la Germania nazionalsocialista non volle perdere l’occasione per sfruttare la vetrina che gli era capitata di avere a disposizione e quindi furono investiti capitali non indifferenti per la realizzazione ottimale a tempo di record.
I Giochi invernali di Garmish Partenkirchen si tennero regolarmente dal 6 febbraio 1936 nonostante la scarsità di precipitazioni nevose e gli auspici di chi sperava nell’incidente per creare un caso clamoroso. Si giunse al punto che un Comitato americano suggerì – più che limitarsi ad un auspicio – che “sarebbe utile se un atleta americano fosse trovato pugnalato a morte sulle Alpi”.
In presenza di tali auspici e provocazioni, la preoccupazione tedesca per il clima nel quale si sarebbe svolta la competizione internazionale portò addirittura all’emanazione di ordini alla forze di Polizia affinché, nel caso che uomini in divisa fossero stati insultati o “provocati” in qualche modo da stranieri, avrebbero dovuto “porgere l’altra guancia”.
La stessa presenza di Hitler all’apertura dei Giochi fu decisa solo all’ultimo momento.
Neppure un fatto gravissimo avvenuto la notte precedente l’inizio dei Giochi invernali, il 5 febbraio, riuscì a turbare il clima. In Svizzera un ebreo uccise il capo dei nazisti locali Wilhelm Gustlloff. La stampa tedesca, nonostante il fatto temporalmente coincidente con l’apertura dei Giochi, trattò “moderatamente” e non in prima pagina nei quotidiani l’episodio.
Ben altre conseguenze ebbe tre anni dopo (il 9 novembre 1938) l’uccisione a Parigi da parte ancora di un ebreo, di un giovane diplomatico tedesco, il ventinovenne Ernst Eduard vom Rath, assassinio che offrì il pretesto ai nazisti in Germania per scatenare una incredibile serie di violenze contro sinagoghe ed ebrei in quella che è passata alla storia come la “notte dei cristalli”, punto di svolta e di non ritorno dell’antisemitismo tedesco.
Sia come sia, i Giochi invernali furono un successo e l’immagine della Germania nazionalsocialista ne uscì meravigliosamente, un modello di perfezione, anche se da un punto di vista di medaglie il trionfo fu della Norvegia (15 in totale delle quali 7 d’oro) e della Svezia, mentre la Germania ne ottenne 6 (3 delle quali d’oro); ma gli USA solo 4 (una d’oro).
Chi auspicava l’incidente cercò di rifarsi ai Giochi estivi di Berlino.
Le avvisaglie si ebbero già al Villaggio olimpico prima dell’inizio, quando le squadre di vari Paesi (Olanda, Francia, Gran Bretagna, ….) ricevettero centinaia di lettere e cartoline antinaziste e una petizione firmata da quattordici artisti americani antifascisti. Jesse Owens che le previsioni davano come un sicuro vincitore di medaglie d’oro, ricevette addirittura l’invito a rifiutare i premi e a rilasciare invece questa dichiarazione: “E’ stato un onore per me rappresentare la mia nazione qui, e un piacere gareggiare contro i migliori atleti del mondo, ma devo rifiutare con disprezzo il premio che mi viene offerto da un governo che predica l’odio razziale”.
E’ evidente che i tedeschi profusero tutti gli sforzi possibili perché tutto si svolgesse nel migliore dei modi, rifuggendo da polemiche e provocazioni. La regista cinematografica Leni Riefenstahl, amica personale di Hitler, fu incaricata di girare il film dei Giochi (ne scaturì un capolavoro dell’estetica cinematografica: “Olympia”), le strutture degli impianti e dell’accoglienza furono realizzate con criteri d’avanguardia e di eccellenza; gli stessi strumenti tecnici furono innovativi, come il sistema di cronometraggio fotoelettronico con riproduzione di filmati alla moviola che escludeva l’errore umano, … insomma, era evidente che il Cancelliere e i suoi collaboratori volevano fare dell’occasione una grande campagna propagandistica per il Reich e per il nazionalsocialismo. Di certo non volevano provocare incidenti internazionali o scandali politici.
Jesse Owen, “l’uomo più veloce del mondo”, faceva parte della squadra americana nella quale non era l’unico afroamericano (17 erano gli atleti neri maschi e due le componenti della squadra femminile).
Il famoso “incidente” avvenne subito, il primo giorno delle gare, il 2 agosto 1936.
Andò così: una folla entusiasta di 110.000 persone affollava lo Stadio olimpico. In mattinata la prima medaglia d’oro fu vinta da una venticinquenne tedesca, Tilly Fleischer, un record che scatenò l’entusiasmo dei presenti. Adolf Hitler non era presente nello stadio, arrivò nel tardo pomeriggio, giusto in tempo per assistere alla seconda medaglia d’oro ad un tedesco, a Hans Wöllke (atleta, tra l’altro, membro delle SS) nel lancio del peso, primo oro olimpico nell’atletica leggera per un tedesco; subito dopo ci fu un’altra vittoria tedesca, quella di Gerhard Stöck (lui membro delle SA) nel lancio del giavellotto, contro il favorito americano Jack Torrance. Nella successiva gara dei diecimila metri trionfarono i finlandesi. Coinvolto dall’entusiasmo generale, Hitler volle congratularsi personalmente con i vincitori della giornata, stringendo loro la mano e li fece salire nella sua tribuna.
Un gesto inusuale per un Capo di Stato fino a quel momento.
L’ultima gara prevista quel giorno era il salto in alto maschile, una gara che iniziò in ritardo e durò più a lungo del previsto, concludendosi quindi al crepuscolo mentre stava arrivando un temporale. Alla fine della gara erano rimasti in competizione solo il biondo finlandese Kalevki Kotkas e il nero americano Cornelius Johnson che vinse la medaglia d’oro.
Qui divergono le testimonianze e le versioni sul presunto e solo supposto rifiuto di Hitler di “stringere la mano ad un negro”.
Lo storico Richard Mandell sostiene che Hitler lasciò lo stadio prima della fine della gara “al buio e sotto la minaccia di un rovescio di pioggia”; il corrispondente del “New York Times”, sostenne che Hitler se ne andò pochi minuti prima della premiazione, mentre solo un testimone tedesco sostiene che Hitler abbia lasciato lo stadio mentre due atleti americani stavano salendo le scale della tribuna per ricevere le congratulazioni come avevano visto fare agli altri quattro nel pomeriggio.
Questo mancato e non protocollare omaggio è all’origine della storica polemica.
Come si vede, la faccenda non riguarda neppure Owens che entrò in scena successivamente.
Però, dopo la stretta di mano ai vincitori delle gare iniziali fatta da Hitler inaspettatamente, il Presidente del Comitato Olimpico Internazionale, il conte belga Henri de Baillet-Latour, si rivolse il mattino successivo a Karl Ritter von Halt, del CIO tedesco e responsabile del Comitato Organizzatore dei Giochi, dicendogli che la stretta di mano pubblica ai vincitori fatta da Hitler non era nelle consuetudini olimpiche ma che se avesse voluto farlo ancora, lo avrebbe dovuto fare con tutti.
Hitler, informato da von Halt della reprimenda di Baillet-Latour, garantì che da quel momento non si sarebbe più congratulato in quel modo con nessuno dei vincitori.
L’occasione si presentò il giorno dopo appunto con Owens che, in quella giornata bagnata dalla pioggia, trionfò sul tedesco (e suo amico) Lutz Long nel salto in lungo e fu incoronato con una ghirlanda di foglie di quercia e una piantina di quercia in vaso. Contrariamente alle altre Olimpiadi, in quelle tedesche del ’36 la ghirlanda di foglie d’olivo o di alloro fu sostituita da quella di quercia e i vincitori furono pregati di piantare le piccole quercie in vaso al loro ritorno in patria, oggi sono divenute grandi alberi. Uno dei tanti esempi dell'”anima verde” di alcune delle componenti del nazionalsocialismo.
Il comportamento dei due competitori, Owens e Lutz, in pista era stato cavalleresco e proseguì nella vita tra l’americano e l’iscritto al NSDAP.

Jesse Owens con a sinistra l’amico e avversario tedesco Luz Long

Lutz morì in combattimento a Biscari in Sicilia nel luglio 1943 e Owens, quando lo seppe contattò la famiglia per esprimergli il suo dolore. Non solo, negli anni ’60, quando collaborò alla realizzazione di un film sulle Olimpiadi, scritturò tra gli attori il figlio di Lutz.
Owens, che niente sapeva della censura di Baillet-Latour a Hitler, non manifestò alcuna stizza per la mancata convocazione in tribuna da parte di Hitler e solo in seguito apprese della storia della mancata stretta di mano da parte del Cancelliere della quale sarebbe stato umiliato protagonista.
Non solo non si prestò alla speculazione ma al rientro negli Stati Uniti, davanti a un migliaio di suoi fans neri a Kansas City smentì radicalmente l’episodio precisando che invece aveva incrociato lo sguardo di Hitler al suo passaggio davanti alla tribuna e che questi, alzandosi in piedi, lo aveva salutato con la mano e lui aveva risposto.
Nella sua autobiografia “The Jesse Owens Story” fu ancora più preciso: “Dopo essere sceso dal podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il Cancelliere tedesco mi fissò, si alzò e mi salutò agitando la mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Penso che giornalisti e scrittori mostrarono cattivo gusto inventando poi un’ostilità che non ci fu affatto”.
La cosa non finì lì. Owens il rancore lo manifestò nei confronti del Presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt che non si era degnato neppure di inviargli un telegramma per congratularsi con lui per tutte le medaglie vinte – quattro – in quelle Olimpiadi del 1936 e in seguito evitò di incontrarlo.
L’atleta, alle successive elezioni presidenziali americane finì con lo schierarsi per Alf Landon, candidato opposto a Roosevelt.
Non va dimenticato che nell’America degli anni ’30 il razzismo nei confronti della gente di colore era ben radicato e motivato; mentre scienziati e docenti universitari scrivevano di supremazia della razza bianca, in campo sportivo le cose non erano molto diverse, un programma della CBS fu sospeso perché un commentatore aveva sostenuto che gli atleti neri erano migliori dei bianchi; l’allenatore della squadra di atletica di Yale sosteneva che “il calcagno sporgente comunemente diffuso fra i neri dava loro un vantaggio sui velocisti bianchi”, e lo stesso allenatore di Jesse Owens, Larry Snyder, ebbe a dire che gli atleti neri accettavano di buon grado gli ordini degli allenatori bianchi: “…. accettano con docilità di lasciarsi allenare….”.
Ci sarebbe davvero da riflettere sul perché la stampa americana imbastì una campagna, alla faccia di quanto sostenuto da Owens, all’insegna della parola d’ordine: “Owens umiliato da Hitler”. Quando invece altri atleti neri come John Woodruff, vincitore di medaglia d’oro negli ottocento metri, dichiaravano: “… mi hanno chiesto come ci trattavano i tedeschi. Ci hanno trattato da re. Ci hanno teso il tappeto rosso davanti ai piedi. Sono stati molto cordiali, molto accoglienti, molto amichevoli, molto delicati. Pieni di considerazione per noi, sotto ogni punto di vista”.
Andò a finire che Jesse Owens divenne una specie di ammiratore di Hitler, o comunque, così fu considerato.
Di fatto fu messo ai margini del mondo sportivo. Per guadagnare qualcosa dalle sue capacità fisiche fu costretto ad esibirsi in gare da circo addirittura costretto a gareggiare con cavalli da corsa….
Trovò una sua dimensione e dignità quando passò all’insegnamento e alla preparazione di atleti e di squadre di pallacanestro. Solo in tarda età ricevette onorificenze di rilievo. Morì nel 1980 ma la leggenda della mancata stretta di mano di Hitler continua ancora nonostante le sue smentite. (da effemeridi del giorno)

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Amerino Griffini

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