Cultura. L’attore Roberto Herlitzka porta il canto libero di Lucrezio nell’antica Elea

lucrezio eleaNe scrivo che sono passati alcuni giorni. “Giuvà, tieni che ffà?”, mi dice Paolo Isotta. “Tengo nu battesimo in Calabria.” “Giuvà, nun dà retta: he a venì cu mmico!”  Sono stato a sentire il mio grande amico. Lo prendo a Salerno e traversiamo la zona inferiore della provincia per giungere nel Cilento. Ineffabile lo splendore dell’acropoli dell’antica Elea, invincibile il fascino del canto che del De Rerum Natura di Tito Lucrezio Caro ha fatto il grande, grandissimo, maestro e attore Roberto Herlitzka.

Oggi la chiamano Ascea; ma il luogo sacro alla filosofia e alla storia occidentale si chiama ancora Velia, così come venne latinizzata. Martedì scorso, nell’ambito della kermesse VeliaTeatro, la madre di Zenone e di Parmenide ha accolto Herlitzka e la “sua” versione del Poema della Natura di Lucrezio. Il bellissimo festival è dedicato alla filosofia e al mondo classico; e quest’anno è in omaggio alla memoria di Marcello Gigante. Per le sue scoperte su Filodemo, il filosofo siriaco che a Ercolano fondò una scuola di filosofia epicurea, Gigante è presente e aleggia in particolare sullo spettacolo di Herlitzka, ma su tutti gli altri. L’insegnamento di Filodemo ridonda su Lucrezio ma anche su Virgilio e Ovidio e Papinio Stazio; persino su Cicerone, il quale, pur adepto dello stoicismo, conservò il Poema della Natura: e fu la migliore azione compiuta in vita da quest’uomo vile, servo, approfittatore, ma sommo epistolografo.

L’attore torinese, noto al grande pubblico cinematografico per i lavori con i registi Bellocchio e Sorrentino (su tutti “Buongiorno Notte”, in cui impersonò Aldo Moro e “La Grande Bellezza” in cui è il cardinal Bellucci), ha volto il poema latino in terzine dantesche. La recita di quattro passi, del poema – ma Herlitzka sarebbe pronto a cantarcelo tutto –  è stata introdotta dalle didascalie di Stefano Maso, storico della filosofia all’Università Ca’ Foscari e intervallata da excerpta delle Variazioni Goldberg di Bach, trascritte per trio d’archi, per la regia di Antonio Calenda.

Lo spettacolo è stato sublime. Dalla torre normanna, sincretismo storico e culturale che fa del Cilento e della Campania una perla eccezionale ma al contempo fraintesa da caciaroni d’ogni risma, le parole di Herlitzka hanno incantato – nell’autentico senso del termine, etimologico – l’importante platea del Velia Festival. Ascoltavano in religioso silenzio: eloquente silenzio.

I versi di Lucrezio, in un elegante contrappasso a Dante che il sommo latino colloca, senza nominarlo – e probabilmente non lo conosceva –  nell’arca di fuoco insieme con color che l’anima col corpo morta fanno, risuonano or corruschi or cupi or aerei e leggiadri:  proprio per questo ovunque rimbomba la potenza evocativa dell’atomo che precipita e di quello che si scontra, della forza invincibile dell’amore, del “mito” del naufragio che tante stolide coscienze (in malafede?) ha scioccato nel tempo. Le arduità della fisica epicurea si sciolgono, limpide e chiare, nel canto di Roberto Herlitzka: che si manifesta dunque non solo il mostro sacro del teatro e cinema italiani, anche un altissimo uomo di cultura – di quella vera.

La Bellezza però non incontra quasi mai cantori innamorati quale ne ebbe in Lucrezio. Malafede, supposizioni e confino: questo è stato il destino a cui furono consegnati i versi immortali (con Ovidio) del grandissimo poeta latino. Del resto il suo è pensiero davvero pericoloso perché canta l’autentica libertà dell’uomo da ogni laccio, primo quello della religione (che i lacci porta nel suo etimo).

Della vita di Lucrezio si sa solo quanto volle tramandarci San Girolamo che lo fa suicida e pazzo a causa di un filtro d’amore; e fra un accesso e l’altro della pazzia egli avrebbe scritto alcuni libri, aliquot libros, ossia il poema. Infamia propagandistica. Ma non abbiamo altre fonti, silenzio assoluto. Come già accadde per il suo maestro ideale, il grande Epicuro. Diogene Laerzio, che pure tentò di ristabilire qualche verità sul conto del filosofo di Samo, inutilmente prova a smontare le dicerie, ad enumerarne i detrattori e i calunniatori. Di lui, lo storico greco ci racconta che scrisse più di tutti (e senza citazioni da altri con cui rimpolpare le sue opere), anche più di Aristotele. E che predicò sommamente la metriotes (“mandami un pentolino di formaggio ché possa scialarmela”, chiede Epicuro in una lettera a un amico), altro che gli eccessi barbari imputatigli dagli avversari a cui non si sottrasse nemmeno Plutarco. Non ci rimane quasi nulla di lui. Ci restano solo qualche massima, il testamento (riportato proprio da Diogene Laerzio), e quanto di spurio c’è nelle Sentenze Vaticane.

Nemico mortale dell’epicureismo fu la Stoà, la filosofia del portico che preparerà il terreno ideologico e culturale al cristianesimo. Che, a sua volta, erediterà la somma avversione nei confronti di Epicuro e, perciò la attualizzerà nell’odio a Lucrezio. Vi è una sorta di scontro ineludibile, un’incomprensione di fondo: lo stoicismo e il cristianesimo poi ebbero gran risonanza tra schiavi e liberti, si prestano molto a una moralizzazione capace di incidere magnificamente sul piano politico. Epicuro e Lucrezio propongono una visione aristocratica del mondo che rivendica distanza e distacco, se non proprio di avversione, dal potere e dalle sue paturnie. Quella del peccato cristiano è nozione profondamente aliena dalla visione che ebbero della vita Epicuro prima e Lucrezio poi.

È in un brano dal Primo Libro (ma se ne potrebbero citare a dozzine), quello dell’inumano sacrificio della fanciulla Ifigenia, che splende tutta la distanza di un gigante senza tempo come Lucrezio dal potere e dalle sue orride liturgie.

“Nam sublata virum manibus tremibundamque ad aras

deductas, non ut sollemni more sacrorum

perfecto posset claro comitari Hymenaeo,

sed casta inceste nubendi tempore in ipso

hostia concideret mactatu maesta parentis,

exitus ut classi felix faustusque daretur.

Tantum religio potuit suadere malorum”.

Che Luca Canali volge così:

“Infatti, sorretta dalle mani dei guerrieri, è condotta tremante

all’altare, non perché dopo il rito solenne

possa andare fra i cori dello splendente Imeneo,

ma empiamente casta, proprio nell’età delle nozze

perché cada, mesta vittima immolata dal padre,

affinché una fausta e felice partenza sia data alla flotta.

Tanto male poté suggerire la religione”.

Ma né Canali né gli altri possono volgere la musica di quell’allitterazione e omeoteleuto propri del latino: casta inceste.

Un poeta così umano, così profondo, così autenticamente libero e perciò virile non poteva che scomparire, travolto dalle maldicenze, dalle calunnie e poi triturato dall’oblio, declinando il mondo antico.

Nemmeno il tempo presente, tutto materialista e antispirituale riesce anche solo ad accostarsi a Lucrezio. Religio non è solo quella degli altari, delle messe. Ogni irrazionale convinzione, utilizzata (più o meno palesemente) a scopi mondani, per avvolgere l’uomo in una spira di consuetudini e pensieri è religione.

Il curato di campagna che turlupina la bella contadinotta facendole credere che a far l’amore col prete non si rimane incinta ha solo sostituito la talare con gli abiti civili, è quello che tutto sorridente dalla copertina di un improbabile libricino promette a tutti di poter far soldi, di cambiarti la vita, di trasformarti in un uomo nuovo (sic!) e di successo. Sulle are sanguinolente della modernità si sacrificano volentieri in tanti.

Tutto ciò che canta Lucrezio è devastante per ogni regime che voglia imporre all’uomo cosa e come pensarlo. E, a maggior ragione, vale tutt’oggi.

Sempre con Lucrezio, dal proemio del Secondo Libro:

“O miseras hominum mentis, o pectora caeca!

Qualibus in tenebris vitae quantisque periclis

degitur hoc aevi quodcumquest? Nonne videre

nil aliud sibi naturam latrare, nisi utqui

corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur

iucundo sensu cura semota metuque?”.

E ancora con Canali:

“O misere menti degli uomini, o animi ciechi!

In quale tenebrosa esistenza e fra quanto grandi pericoli

si trascorre questa vita così breve! Come non vedere

che null’altro la natura ci chiede con grida imperiose,

se non che il corpo sia esente dal dolore, e nell’anima goda

d’un senso gioioso sgombra d’affanni e timori?”

 

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Giovanni Vasso

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