Il caso letterario. Guerriglia, il cult di Obertone. L’anticipazione: “Tutto iniziò così”

19787083_1457533957662018_5004746464908617244_o[1]Primo Giorno.

La courneuve. Ore 17.00.

In quel buco vivevano degli uomini. Barbari, per dirla con le loro stesse parole. Quello era il loro territorio. Un quartiere temibile, il più temuto della città, e, forse, del Paese. Nell’arrivare, lo sbirro aveva alzato lo sguardo verso la cima delle torri e, fra sé e sé, aveva pensato che in un posto del genere dovessero proprio accadere cose losche. Quel giorno aveva l’impressione di respirare il vuoto. […]

Tanto per cominciare, perché si trovavano là? A un’ora dalla fine del turno, per un merdoso controllo nel quartiere più caldo della città, per una testa di cazzo di brigadiere che si era sentito in dovere di accorrere in aiuto di questa donna, sedicente residente al settimo, che aveva chiamato per denunciare di trovarsi in pericolo di morte e di cui non si sapeva nulla. Il brigadiere aveva chiesto all’altra pattuglia di aspettare due isolati più indietro, per controllare le auto e per evitare che l’operazione assomigliasse a un raid, quello che nella lingua parlata da quelle parti si chiamava “provocazione”. Per i begli occhi di un fantasma, ora si trovavano là, circondati da barbari che morivano dalla voglia di sgozzarli.

Chi avrebbe iniziato a picchiare per primo? Il tipo in tuta da ginnastica bianca alla sinistra del brigadiere? Il poliziotto vedeva il suo silenzio, i suoi occhi malvagi, la sua volontà di lasciarsi dimenticare in un angolo morto. Il brigadiere parlava, fissando il più grosso, parlava come se tutto andasse bene, parlava per preservare il fio delle sue parole come il primo fuoco dei primi uomini. Sembrava credere che quaggiù la parola potesse ancora riuscire a prevenire il crimine. Entrò una donna, con il velo, scortata da un silenzio che sembrava un presagio. Guardò i poliziotti con quello stesso sguardo che avrebbe riservato a Satana nella sua moschea.

L’angelo delle periferie passò e lo scontro poté riprendere. Era una questione di territorio e di onore e, alla fine dell’escalation, non poteva che esserci la morte o l’errore, in pratica la stessa cosa. «I caïd sono soltanto dei musi grossi». Così erano soliti dire i poliziotti tra colleghi, la sera intorno a un buon bicchiere. Ma erano uomini e intimamente tutti loro sapevano. Quei ragazzi non erano fatti tutti della stessa pasta. E là, in quel momento, lui aveva paura e trovava sovrumano avere una faccia così grossa. Erano animali, una massa di pulsioni e di odio, cani d’attacco pronti a rompere i guinzagli e a dilaniare volti. Avrebbe voluto avere un decimo della loro rabbia. Perché aveva così tanta paura?

Strattonarono il brigadiere. Si arrivava al dunque. Se reagisce, muore. Se non reagisce, è già morto. Seguì una scarica massiccia di adrenalina. Lui voleva che tutto degenerasse, là, in quel momento, per poter sbarazzarsi all’istante di quella tensione, disintossicarsi dalla sua abietta disciplina a colpi di manganello regolamentare, implorando di poter perdere conoscenza quanto prima. La belva che aveva nelle viscere tramava il suo golpe. Ma c’era sempre quel cazzo di super-io in divisa a impedirgli di sguainare la sua Sig Sauer. L’uomo in tuta bianca era uscito dall’ombra per colpire il brigadiere con uno pugno tremendo, il più rumoroso che avesse mai sentito. Il rumore sordo delle falangi al contatto con la carne si era riverberato nella tromba delle scale. L’unico graduato che viveva in quel raggio di dieci casermoni si era accasciato a terra come un peso morto. Immediatamente, tutti gli altri si erano avventati su quel corpo, accanendosi con calci e botte. Lui aveva sbraitato ordini autoritari del tipo “no!”, “calmatevi!”, “state indietro”, e non aveva potuto esimersi dall’aggiungere “polizia”, come a dire che si fosse trattato di un macroscopico malinteso.

La sua giovane collega, che fino a quel momento si era aggrappata al guinzaglio del cane come un alpinista alla sua corda, urlò qualcosa e lo sguinzagliò perché assolvesse al suo compito. In un primo momento fu di un’efficacia impressionante. Il carnivoro incontrò poi un ostacolo quando un machete lo trafisse tra le vertebre. Sul brigadiere si abbatté un tornado di colpi. Spiaccicata contro il muro, la poliziotta urlava in preda al terrore: aveva visto un’ombra brandire un badile.

Fu allora che la belva delle viscere si fece sentire.
La Sig sputò la sua efferatezza.
Uno, due e tre.
Caduti al rallentatore, come i petali di un ciliegio.
Quattro, cinque. L’altro alzò le mani, agghiacciato.
Sei. […]

Arrivarono infine alle auto. I colleghi erano pallidi. Avevano sentito i colpi di arma da fuoco. Si rese conto che non avrebbe avuto più amici né tanto meno colleghi. La belva delle viscere aveva vinto, ora c’era soltanto lui e lui solo davanti all’Ispettorato Generale della Polizia di Stato: le inchieste, la gerarchia, i media, le manifestazioni, una vita di processi, di ricatti, di minacce e di terrore… Sapeva che la sua fuga era arrivata al capolinea. Terribile come una certezza. Era proprio lui che aveva appena reso possibile quanto accaduto. Era lui che aveva appena concretizzato l’ira del caso. Caricò la collega a bordo dell’auto, chiuse la portiera e le auto ripartirono. Non accesero le sirene e nessun poliziotto aprì bocca. Sul marciapiede alcuni residenti li videro sfilare via con un’aria mesta. Dietro di loro, urla.

Il gigante si era destato. L’esercito delle ombre stava per mettersi in marcia.
Tutto ebbe inizio così.

*Per gentile concessione dell’Editore

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Laurent Obertone*

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