Storia. 22-27 agosto 1917: i moti di Torino (poi domati dai socialisti)

image003-1Nell’agosto 1917, dopo oltre due anni di guerra, per l’Italia, nulla lasciava intravedere una rapida conclusione dell’immane conflitto, sempre più sanguinoso e con le linee dei fronti sostanzialmente bloccate sugli inferni delle trincee. Il 2 aprile 1917 il Congresso di Washington  decideva l’entrata in Guerra contro la Germania. Ma a causa della indisponibilità di un Esercito adeguato e di una flotta per trasportarlo e rifornirlo, gli effetti militari di tale decisione non potranno farsi sentire prima di un anno. L’Inghilterra, soprattutto, e la Francia avevano fatto “carte false” pur di far intervenire nel conflitto gli Stati Uniti. Decisione irreversibile e dagli effetti duraturi; per gli Europei la conclusione di un processo evolutivo che si conclude con la perdita del controllo dei loro destini. Da allora, ben prima della WWII,  l’Europa sarà di fatto succube del potere nordamericano. Durante un anno, all’Est,  la Germania potè tuttavia rallegrarsi della destabilizzazione del nemico russo, per la quale aveva operato a vari livelli. Nel febbraio  scoppiò infatti la Rivoluzione (o la “Prima Rivoluzione Russa” o la Rivoluzione dei menscevichi)  che portò all’ abdicazione dello zar Nicola II e ad un Governo Provvisorio. Fra la primavera 1917 e quella del 1918 mai l’Esercito del Kaiser fu così vicino alla vittoria.

In agosto, contemporaneamente all’XI Battaglia dell’Isonzo, tra italiani ed austro-tedeschi, finita in un altro bagno di sangue sostanzialmente infruttuoso, scoppiarono i “Moti di Torino”, esprimendo un sentimento popolare di crescente esasperazione, sicuramente influenzato dalla Rivoluzione Russa. Con un saldo di varie decine di morti, tra il 22 ed il 26 agosto, la rivolta, che assunse anche un carattere antimilitarista contro la guerra in atto, fu domata ed i dirigenti socialisti moderati ripresero il controllo del movimento operaio, anche per non accreditare l’ipotesi governativa di una rivolta “sobillata e finanziata dai Servizi tedeschi”.

Da parte dei socialisti rivoluzionari, futuri comunisti, questa la cronaca, riassunta, dei fatti, tratta da: di Renzo Del Carria, Agosto 1917. La Rivolta di Torino. Proletari senza rivoluzione, Roma, Savelli, 1977:

“A Torino l’opposizione alla guerra era stata vivissima fin dal 1914 sia per la presenza di un proletario operaio combattivo e radicale (il grande sciopero del maggio 1915 lo aveva dimostrato), sia perché la grande, media e piccola borghesia era stata nella grande maggioranza giolittiana e neutralista.  Lo scoppio della guerra e la presenza a Torino della grande industria fecero della città la prima grande città industriale italiana e, quindi, la fucina e l’arsenale della guerra. Si era ingrossato il numero degli operai che ammontavano ora a varie centinaia di migliaia, erano aumentati il guadagno ed il numero degli addetti alle industrie in ogni famiglia, anche se il salario reale era diminuito, e comunque l’aumento del numerario veniva frustrato dalla irreperibilità di vari generi di prima necessità. Di qui un diffuso malcontento per la guerra che aveva rotto schemi precedenti senza garantire le soddisfazioni sperate: di qui una rottura di equilibrio sociale che si inseriva nelle tradizioni politiche del proletariato torinese e lo rendeva pronto all’esperimento rivoluzionario.

Nel medio ceto la diffusa volontà neutralista di stampo giolittiano si modifica in un primo tempo con lo scoppio del conflitto in disciplinato adeguamento ai sacrifici della guerra, con quella silenziosa abnegazione tipica della piccola borghesia piemontese, per la quale, pur restando la guerra un dovere accettato, talvolta anche di buon grado, mai un evento voluto. Inoltre è in questo periodo che la piccola borghesia è duramente provata per il sacrificio di sangue e per le privazioni di ogni genere. Tali sacrifici, man mano sempre più duri suscitano un tale risentimento nel medio ceto che rimarrà neutrale circa l’insurrezione  operaia.    A  Torino  sta  maturando  una situazione prerivoluzionaria.  In questa situazione si inserisce tra il marzo e l’agosto una oscillante penuria di pane (a giorni nei quali si trovava ne facevano seguito altri di relativa difficoltà a seconda dei rioni e delle panetterie) a causa della «speculazione commerciale e della deficienza dei trasporti per lo stato di guerra e del divieto di esportazione da una provincia all’altra». Scendono in agitazione e in sciopero in quei mesi diecine di fabbriche torinesi, dalle metallurgiche alle automobilistiche, dalle tessili alle calzaturiere, e le rivendicazioni economiche si intrecciano con la propaganda per la pace. Comizi «privati» (per la proibizione della polizia) si susseguono nei circoli socialisti, giovanili, ricreativi e sportivi delle barriere operaie. È in questa situazione che giungono a Torino gli echi della rivoluzione russa di febbraio e, spontanea, corre la parola d’ordine di «fare come in Russia».

D’altra parte gli stessi dirigenti socialisti, spinti dalle masse, accentuano il rivoluzionarismo verbale, senza però preparare qualcosa per l’insurrezione, ma lasciando credere alle masse che viceversa qualcosa si stava approntando. Il Serrati nel suo discorso cita le manifestazioni di fine aprile a Milano contro la situazione alimentare e afferma che la Direzione del Partito Socialista aveva deliberato di sostenere il movimento popolare per la pace e che essa avrebbe preso le misure opportune «perché il proletariato italiano insorgesse compatto quando se ne fosse giudicato opportuno il momento per intimare il basta al governo».

La situazione è ormai chiaramente rivoluzionaria a Torino, tanto è vero che, quando i delegati menscevichi dei Soviet russi il 13 agosto (dieci giorni prima dell’insurrezione) pronunceranno discorsi invitanti alla calma, questi, nonostante il loro contenuto moderato, verranno interpretati in termini radicali e salutati dalle grida di ben 40.000 operai (convenuti in spregio ad ogni proibizione) inneggianti alla rivoluzione russa. Si stava entrando nella settimana di Ferragosto ed i maggiori dirigenti si erano allontanati per la villeggiatura.  Gli operai, naturalmente, erano rimasti in città ed è su costoro che si abbatte la penuria del pane: già dal 7 alcuni fornai avevano sospeso la panificazione, ma man mano che passavano i giorni la situazione era andata peggiorando. Tutta la stampa torinese di ogni colore protesta per tale situazione, mentre il malcontento popolare cresce per le code, le incette e qualche tafferuglio. La cronaca che «Stato operaio» ne farà dieci anni dopo ci narra: «La folla in generale era più risoluta verso il mezzogiorno, poiché in quell’ora era formata quasi esclusivamente da donne operaie, di donne cioè che avevano già fatto la coda al mattino, prima di recarsi al lavoro, che avevano lavorato a stomaco digiuno e che, molte inutilmente, rifacevano la coda a mezzogiorno. Erano esse che rientrando al lavoro portavano nella fabbrica il fermento e l’esasperazione da cui erano invase».

Il 21 agosto la crisi si aggrava e si conta che ottanta fornai rimangano chiusi: gruppi di donne manifestano davanti alla Prefettura e davanti al Municipio, mentre le autorità raccomandano la calma e promettono il regolare approvvigionamento del pane per il giorno seguente. Ma ormai è troppo tardi. La mattina del 22 cominciano le prime avvisaglie della battaglia di strada: gruppi di donne e di ragazzi attaccano e fermano i tram un po’ dovunque e nei vari rioni della città cominciano gli scontri. Nel rione Vanchiglia la folla operaia attacca la locale caserma delle guardie di città: queste sparano e feriscono tre dimostranti. Altri scontri si accendono nella cintura rossa dei rioni operai della città. Lo sciopero, iniziato al mattino in alcune fabbriche, si allarga nel pomeriggio a molte altre e la manifestazione da dimostrazione per la penuria del pane diviene lotta politica contro il governo e per la pace. Nel pomeriggio, diecine di migliaia di operai si rovesciano dalle zone industriali verso la Camera del Lavoro, in Corso Siccardi ed in varie zone del centro; si saccheggiano una pasticceria, alcune salumerie, una tripperia, una calzoleria e  vari negozi di armi. Numerose migliaia di operai, confluiti alla Camera del Lavoro per avere direttive, non ricevono alcuna indicazione dai dirigenti che si limitano a telegrafare a Roma all’On. Morgari perché torni a Torino.

L’Autorità, seriamente preoccupata dalla manifestazione che dilaga in città e che ormai ha preso un carattere chiaramente insurrezionale, nella serata arresta il Segretario della Camera del Lavoro ed occupa militarmente i locali camerali. La folla operaia, rimasta ora senza dirigenti riformisti-borghesi, può finalmente esprimere il suo odio di classe contro la guerra in maniera aperta. Il Segretario della Federazione metallurgici, il riformista Buozzi, intuisce immediatamente ciò e richiede al Prefetto lo sgombero della C.d.L. da parte della forza pubblica per comunicare agli operai che le Autorità avevano provveduto per il pane. Ma ormai è troppo tardi: gli operai spontaneamente sono scesi nella lotta, si sono armati svaligiando negozi di armi e, al calar della sera, «già le vie echeggiavano di spari d’armi da fuoco e si vedevano cadere i primi feriti».

Il 23 agosto lo sciopero è in tutta la città ormai generale e preinsurrezionale, malgrado che nessun ordine sia partito dai sindacati. Il Prefetto passa l’incarico dell’ordine pubblico al comandante il Corpo d’Armata gen. Sartirana. I rioni operai (Borgo S. Paolo e Barriera Nizza a Sud e Barriera Milano a Nord) sono occupati da operai armati affiancati da donne e ragazzi, che presidiano le barricate alzate con le più varie suppellettili prese dai negozi saccheggiati e con le rotaie divelte del tram e della ferrovia di Lanzo.  Nella mattinata si accendono i primi scontri a fuoco: in Piazza Statuto vengono mortalmente feriti due operai che decederanno all’ospedale. Saranno i primi due morti della sommossa di Torino dell’agosto 1917. Sempre in Piazza Statuto vengono arrestati un centinaio di popolani. Alla Barriera San Paolo si hanno scontri tra operai arroccati dietro le barricate e forza pubblica, con numerosi feriti, mentre la folla incendia la chiesa di S. Bernardino e l’attiguo convento dei frati. Rinforzi di polizia sopraggiunti uccidono due popolani, tra cui una donna, mentre due reparti dell’Esercito vengono disarmati dai dimostranti.

La parte settentrionale della città è in mano agli operai ed è isolata dal centro dalle due robuste barricate di Corso Vercelli-Via Carmagnola e di Corso Principe Oddone-Corso Regina Margherita, oltre che da un terza barricata del Ponte Mosca sulla Dora. Nel pomeriggio continuano gli scontri tra forza pubblica e dimostranti specie in Via Garibaldi, Piazza Statuto e Corso Vercelli, ove rimangono sul terreno numerosi feriti e qualche morto da ambo le parti.  Il 24 agosto è il momento culminante dell’insurrezione. La mattina del venerdì 24 la situazione militare è la seguente: tutti i rioni periferici operai («la cintura rossa») sono in mano al proletariato insorto, mentre il centro della città è presidiato dall’Esercito. La tattica «spontanea» degli operai torinesi non poteva che portare a gravi delusioni, anche se qua e là in singoli casi, come vedremo, tale fraternizzazione operò in maniera occasionale. Ma in generale i risultati furono deludenti…. La folla sente che può vincere e lotta con furore: semina le strade di morti e di feriti. Ma la riscossa della forza pubblica è decisa. Entrano in campo le automobili blindate, scaricando le mitragliatrici su coloro che resistono. I morti non si contano e l’attacco dei rivoltosi è respinto.

La domenica 26 l’insurrezione è praticamente battuta anche se avviene ancora qualche piccolo scontro nel quale due operai perdono la vita, mentre altri morti vengono segnalati dagli ospedali a seguito delle ferite riportate nei giorni precedenti. Continua però lo sciopero in tutta la città e nelle località della provincia. Cessano in generale i rumori degli spari. La parola è ora di nuovo ai dirigenti riformisti, rimasti tutti liberi, che diffondono il seguente manifesto: “Compagni! Avendo accettato di rappresentare provvisoriamente le organizzazioni che per i noti eventi non possono regolarmente funzionare e dubitando che non sia stato comunicato, e ne comprenderete facilmente le ragioni, le decisioni della Sezione Socialista e della Camera del Lavoro, crediamo nostro dovere avvertirvi che le vostre organizzazioni hanno deliberato di invitarvi a riprendere il lavoro lunedì 27.(http://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/cust7g19-001811.htm).

 

Il bilancio finale fu di circa trenta morti fra i rivoltosi, una  decina fra le forze dell’ordine e quasi duecento feriti; vi furono un migliaio di arrestati; di essi, varie centinaia furono processati per direttissima e condannati a pene detentive. Tra il giugno e l’agosto del 1918 ebbe luogo, avanti al Tribunale Militare di Torino, un ulteriore processo che vide imputati dodici dirigenti socialisti ed un anarchico. Dalle risultanze processuali emerse che la rivolta era stata spontanea e non era frutto di alcun complotto.

Un’analisi non di parte, sfrondata della retorica insurrezionalista, porrebbe in evidenza che all’inizio del ‘900 Torino vantava un discreto tenore di vita. Sarà il conflitto a far registrare un sensibile degrado. Dopo i primi due anni di guerra, e pur lontano dal fronte, le condizioni dei lavoratori torinesi appaiono delicate: se nel 1914, una famiglia composta da cinque persone spende per nutrirsi 20 lire e 80 centesimi circa, nel 1917 quella stessa famiglia per acquistare gli stessi prodotti spende 39 lire e 50 centesimi.  La situazione precipita  quando si registra un ulteriore aumento dei prezzi dei generi alimentari: il 2 agosto il costo del pane aumenta di 10 centesimi al chilo. E viene introdotto il razionamento. L’esaurimento delle scorte di farina, sia pur temporaneo, il 22 Agosto 1917, allorché quasi tutte le panetterie di Torino rimangono senza pane, scatena la protesta. Dai quartieri operai si origina una rivolta spontanea, che unisce motivazioni economiche a rivendicazioni politiche; su tutte la fine della guerra.

Il carattere spontaneo della protesta popolare spiega il motivo della diversa denominazione dei fatti di un secolo fa: per alcuni  fu “La rivolta di Torino” o “I Moti di Torino”, per altri, riduttivamente, “lo sciopero del pane” o “la rivolta del pane”.

Gli storici “socialisti” indagheranno, nei decenni successivi, il fenomeno italiano del neutralismo durante la prima fase della guerra, che distinse il nostro movimiento socialista pacifista dal socialpatriottismo franco-anglo-tedesco. Due storici hanno, in epoca più recente,  approfondito l’insurrezione di Torino (Paolo Spriano da parte della sinistra marxista, in  Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Torino, Einaudi, 1958 ed Alberto  Monticone, dal punto di vista cattolico-liberale, in Gli italiani in uniforme. 1915-1918. Intellettuali, borghesi e disertori, Bari, Laterza, 1972 ed altri saggi),  togliendola dalle nebbie della cronaca e dalle diatribe dottrinali della sinistra.

Con ragione, essi hanno osservato come l’insurrezione di Torino sia un fenomeno «tipico» e «italiano» del socialismo in guerra, un fenomeno unico nell’Europa occidentale, d’insurrezione di una città durante il conflitto. Torino si caratterizzerebbe, anche se in modo minoritario, nella sua istintiva forza rivoluzionaria e coscienza internazionalista nella lotta per la pace, non in funzione di un pacifismo piccolo-borghese, ma di una volontà di rottura contro lo Stato; un esempio per il proletariato italiano, ma, altresì, di una carenza di quadri direttivi e di una vera  ideologia rivoluzionaria di classe.

Antonio Gramsci ed il gruppo dirigente comunista, riesaminando tale fatto su «Stato Operaio», vedranno uno degli elementi dell’insuccesso dell’insurrezione torinese nel mancato passaggio delle truppe nel campo dei rivoltosi. Scriverà Gramsci nel 1920:

“Invano avevamo sperato nell’appoggio dei soldati; i soldati si lasciarono trarre in inganno che la rivolta fosse stata provocata dai tedeschi…Le donne operaie e gli operai che insorsero nell’agosto a Torino, che presero le armi, combatterono e caddero come eroi, non soltanto erano contro la guerra, ma volevano che la guerra terminasse con la disfatta dell’esercito della borghesia italiana e con una vittoria di classe del proletariato. Con ciò essi proclamavano che la guerra non crea un interesse comune tra la classe borghese dominante e i proletari sfruttati, con ciò essi superavano in modo definitivo le posizioni pseudoclassiste e pseudointransigenti del Partito Socialista”.

 Durante i giorni della rivolta antimilitarista, le donne furono magna pars della stessa ed un buon numero protagoniste di un episodio, poi testimoniato da una giovane operaia:

“Un migliaio di donne sbucarono dai portoni di tutte le case, ruppero i cordoni e tagliarono la strada ai carri blindati. Questi si fermarono un momento. Ma l’ordine era di andare ad ogni costo, azionando anche le mitragliatrici. I carri si misero in moto: allora le donne si slanciarono, disarmate, all’assalto, si aggrapparono alle pesanti ruote, tentarono di arrampicarsi alle mitragliatrici, supplicando i soldati di buttare le armi. I soldati non spararono, i loro volti erano rigati di sudore e lacrime. Le tanks avanzavano lentamente. Le donne non le abbandonavano. Le tanks dovettero arrestarsi”.

Come già emerso durante “La Settimana rossa” – guidata da Mussolini, Corridoni, Nenni, Malatesta – l’insurrezione popolare sviluppatasi ad Ancona e propagatasi dalle Marche alla Romagna, alla Toscana e ad altre parti d’Italia, tra il 7 e il 14 giugno 1914, per reazione all’uccisione di tre manifestanti ad Ancona ad opera della forza pubblica, dopo un’iniziale fiammata rivoluzionaria, con la proclamazione dello sciopero generale in tutta Italia, terminò quando la Confederazione Generale del Lavoro decise la cessazione dello sciopero ed il ritorno al lavoro. Scriverà più tardi Pietro Nenni:

 La Settimana rossa lascerà una traccia profonda nell’immaginario popolare come un momento in cui il proletariato aveva unitariamente dato prova della propria combattività, arrivando a sfiorare per un fugace attimo l’ebbrezza della rivoluzione sociale”.

Similmente a Torino, nel ’17, la rivolta fallì a causa della mancanza di unità: non c’erano organizzazioni in grado d’incanalare le forze e dare loro un programma. Il Partito Socialista Riformista, di carattere revisionista, funzionò come “il solito freno”, secondo i massimalisti. Nato nel 1912 su iniziativa di Leonida Bissolati, dopo l’espulsione dal Partito Socialista, con Ivanoe Bonomi e  Gino Piva, per il quale «il socialismo non è rivoluzionario, né riformista; è quello che il suo tempo lo fa, non può avere apriorismi: esso deve operare come può, nell’ambiente in cui vive».  Alle elezioni del 1913 aveva raccolto il 3,9 % dei suffragi e  19 deputati alla Camera.

Gran parte della classe operaia torinese s’ identificava con tale socialismo moderato, se non con il “giolittismo”. Mai a Torino c’era stata una rivolta contro il Governo (sempre i Carabinieri sono stati applauditi dal popolo!), se non nel settembre 1864, contro la decisione del trasferimento della Capitale a Firenze. Ma allora fu essenzialmente una strage causata dall’intervento precipitato e sconsiderato degli  Allievi Carabinieri.

Martedì 28 agosto, sedate le rivolte, le Autorità poterono annunciare che «l’ordine regna a Torino». Come scriverà Luigi Scoppola Iacopini sulla rivista Mondo Contemporaneo (Milano, Franco Angeli, 2009), in “I moti di Torino dell’agosto 1917 nelle memorie di un socialista”, cioè di Gino Mangini (1898-1983), autore di un lungo dattiloscritto  Illusioni e desillusioni di un vecchio socialista (1973?): “L’insurrezione popolare di Torino nelle giornate dell’agosto 1917  è, senza ombra di dubbio, l’unico vero atto di massa contro la Grande Guerra registratosi nel nostro Paese”. 

Alle ore 2 del 24 ottobre 1917 iniziò la battaglia di Caporetto che rappresenta la più grave disfatta nella storia dell’Esercito italiano. Dopo Caporetto il proletariato, senza alcuna direzione rivoluzionaria, rimase isolato e battuto dalle parole d’ordine governative e socialriformiste della «Patria sul Grappa», come fu sostenuto dalla sinistra radicale.

Al fronte, le classi subalterne italiane avevano scoperto la Patria, nella percezione di una comunità più grande di quella del piccolo mondo paesano o del gruppo sociale di appartenenza, fatta di un comune destino, in grado di apprestare gli architravi di una coscienza nazionale. I lavoratori, delle campagne e delle officine, sui campi di battaglia avevano cominciato a sentirsi veramente “italiani”: combattendo si erano guadagnati “i diritti di cittadinanza”, che per i contadini poggiavano sul diritto alla terra, per gli operai su di un equo salario ed una stabile occupazione. La promessa del generale Armando Diaz, di dare «la terra ai contadini», all’indomani della sconfitta di Caporetto, si configurò come il riconoscimento da parte delle classi dirigenti liberali della necessità di accelerare l’inclusione dei ceti popolari nello Stato-Nazione: non solo per vincere la guerra, ma per fondare sulla “nazionalizzazione delle masse” un nuovo sistema politico e statuale che ne sarebbe inevitabilmente scaturito. All’indomani di Vittorio Veneto, nel 1918, tale proposito non ebbe un seguito reale ed alla mobilitazione delle classi subalterne, che affondava le sue radici proprio nella domanda di inclusione sociale e di legittimazione, lo Stato liberale non seppe dare una risposta adeguata. In questa carenza trovò la sua origine il Fascismo.

Occorre, comunque, riconoscere  che all’indomani di Caporetto – ed a parte l’aiuto degli Alleati – il “fronte interno” italiano reagì straordinariamente bene all’impatto della disfatta. Una delle pochissime, forse l’unica, manifestazione di grande orgoglio nazionale, di compattezza, di fede nella possibile rivincita, di dignità e solidità di una Nazione ferita, ma non abbattuta.

* già ambasciatore in El Salvador e Paraguay

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Gianni Marocco*

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