Cultura (di P. Isotta). Duemila anni di Ovidio, gigantesco cantore del mito

ovidioCollinosa Sulmona, in mezzo ai monti degli antichi Peligni. La guarda il Morrone, che conserva la caverna dell’eremita Pietro, divenuto brevemente Papa col nome di Celestino Quinto. La via da Sulmona a Pescara scende a valle e va verso oriente per giungere alle sponde del verde Adriatico. Nella fantasia la ripercorro: congiunge due fra i più grandi poeti, i due più alti contributi che gli Abruzzi diano all’arte. Sono Ovidio e Gabriele D’Annunzio. E ambedue soffrono della medesima pena: la loro fama è quella di “poeti musicali ma superficiali”. L’amore per la musica del verso, quello per la descrizione vivida e parlante, l’arte colla quale questo amore è attuato, sono considerati colpa.

   Ovidio morì relegato a Tomi, sulle sponde del Mar Nero, nel 18 o, più probabilmente, nel 17: onde se ne celebra il bimillenario: in modo affrettato e tardivo. Nella gelida Scizia venne costretto da un decreto di Augusto: dopo esser stato uomo di successo, si consumò nove anni nel dolore di una irrevocata condanna le cause della quale non sono chiare. Carmen et error, egli dice nelle opere composte a piangere e nella vana speranza, lo persero. Error: un passo falso? Si ipotizza la sua amicizia (non relazione erotica) con Giulia, la figlia di Augusto che per la vita licenziosa era stata a sua volta esiliata. Carmen: il complesso della sua poesia erotica. Ovidio canta l’eros in modo pieno di gioia, con gioiosa impudicizia. La società romana lo viveva così; e basti pensare alla poesia di Catullo, a parte di quella di Orazio. Ma Ottaviano, da imperatore, tentò un’impossibile restaurazione dell’austerità repubblicana; Ovidio, che finisce coll’esser involontariamente poeta politico, pagò per tutti. Il meraviglioso romanzo di Vintila Horia Dio è nato in esilio racconta la vicenda con pathos e dottrina. E la colta Romania latinizzata ha ancor oggi il culto per il poeta che considera, giustamente, divenuto suo.

   Certo a Ovidio sfugge l’aspetto profondamente tragico dell’eros, come lo cantano in modo supremo Lucrezio e Virgilio, e a modo suo lo stesso Catullo. Credo che la superficialità rimproveratagli nasca dallo stesso sbaglio di prospettiva che avvelena l’immagine di D’Annunzio. L’uno e l’altro sono poetae docti, poeti dotti che dall’immensa cultura traggono fonte di ispirazione. Cantano il mito, e cantano, soprattutto, ciò che i poeti che li precedono del mito cantano. E allo stesso modo che la poesia greca ed ellenistica è per Ovidio continua fonte d’ispirazione, egli continua fonte d’ispirazione è per la poesia a lui successiva. Si pensi a quel ch’egli significa per Dante, per Petrarca, per Shakespeare, per Metastasio, per Borges. E, nell’arte figurativa, pensiamo a Raffaello, Tiziano, Annibale Carracci, Caravaggio, Bernini.

    Davvero è Ovidio un cantore dell’eros, o solo dell’eros, come si vuole? Credo che le Metamorfosi, che pure sono uno dei testi più noti e saccheggiati dell’intera letteratura, e i  Fasti, diano di lui ben altra immagine. Sotto l’aspetto del cantore della trasformazione, ch’è universale legge, e della rievocazione delle più antiche feste, Ovidio compie una delle più grandiose riscritture del mito che mai poeta abbia tentate. La sua arte è immensamente variata nella descrizione; e lì tocca il dolore: sovente si fa poesia filosofica. Non vedo abbastanza messe in rilievo le sue radici in parte pitagoree e in parte epicuree. Mi scrive Orazio Mula: “Mi pare che nella poesia filosofica di Ovidio la metamorfosi rappresenti una redenzione, non soltanto in senso estetico, di fronte al mistero del dolore.” Parole così profonde non le trovo presso i professori.

*Da Il Fatto Quotidiano

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Paolo Isotta*

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