Musica. Elogio di Leonard Cohen (poeta prima che cantautore)

Leonard Cohen
Leonard Cohen

Solo un mese fa cantava, con la sua voce dorata, “Sono pronto, mio Signore”, interrogando l’Altissimo nel brano che dà il titolo al suo quattordicesimo ed ultimo album, You Want It Darker. Leonard Cohen abbracciava la vita, presentandosi al cospetto della morte, accompagnato dal coro della sinagoga di Montreal, terra della sua nascita. È singolare come, in lui, la parola cantata prenda forma con toni ammalianti, seducenti. Non a caso, durante gli anni del liceo, Leonard si dilettava nell’esercizio dell’ipnosi, inducendo la giovane cameriera di casa a spogliarsi – incantata – dei suoi vestiti.

Canadese di origini ebraiche, il maestro della musica fu poeta prima che cantautore. Negli anni ’60 videro la luce alcune delle sue raccolte in versi (tra cui spicca Flowers for Hitler). Quasi tutte risalenti al suo soggiorno a Hydra, isoletta della Grecia rifugio di artisti, lì dove incontrò per la prima volta Marienne Ihlen, sua amante e musa a cui dedicherà So long, Marienne e Bird on wire. Alla fine del decennio, nel 1967, quando i giovani di tutto il mondo – ribelli, liberi, in fiamme, soldati spensierati di un esercito combattente per l’immaginazione al potere – si preparavano, di lì a qualche mese, a scendere in piazza lodando la vita, Leonard pubblicava Songs of Leonard Cohen, inno al suicidio e alla morte. Oggi pietra miliare nel suo genere, il disco, i cui arrangiamenti e musiche sono tutti ad opera del cantautore, ha esercitato una grande influenza ed impresso un forte impatto su artisti come Joan Baez, Judy Collins e Fabrizio De André (autore della versione italiana di Suzanne). Giunto tardi alla musica (peraltro indottovi proprio da Judy, cantautrice folk), solo due anni dopo, Cohen realizza l’album Songs from a Room, a cui avrebbe fatto seguito il personalissimo Songs of Love and Hate.

Ai suoni dolci e scarni dei primi album, il cantautore canadese sostituisce ben presto il jazz e gli stilemi etnici di una musica mediterranea e orientale, inizialmente abbandonando il folk per seguire il produttore Phil Spector, padre del cosiddetto “muro del suono” – tecnica consacrata qualche anno prima dai Beatles con Let it be. Ecco che, nel ’77, esce dunque Death of a Ladies’Man, l’album forse più controverso e meno riuscito della carriera. Gli anni ’70 sono, senza dubbio, anni per Leonard significativi: quasi quarantenne, quando scoppia la guerra del Kippur, lascia Los Angeles e giunge a Tel Aviv, dove sceglie di indossare la divisa dell’esercito e cantare per i soldati. Lui stesso ricorda: «Sì, cantavo per l’esercito israeliano. Avevo paura che le mie canzoni, così malinconiche, non avrebbero aiutato il morale dei militari. Invece no. Mi accorsi presto che quei ragazzi, sotto le armi come me, fra una battaglia e l’altra, non avevano bisogno che qualcuno suonasse inni al coraggio. Quando sei in quelle situazioni, la mente e il cuore sono più aperti a brani come i miei. Ne ricevi più forza».

Il rapporto dell’artista con la religione sarà una costante della sua esistenza, e le origini ebraiche – il cui riflesso è eternamente presente nella forte componente biblica che ha indelebilmente segnato tutto il suo percorso, a partire dalla canzone manifesto Halleluja – non gli impediranno di divenire membro, per un breve periodo, della Chiesa di Scientology e poi, negli anni 90, di avvicinarsi al Buddismo. Sarà così che inizierà ad occuparsi, come lui stesso la definì, della “vita ordinaria”, cucinando e lavando i piatti nel monastero di Mount Baldy (2000 km da Los Angeles), dove vivrà per qualche tempo, con il nome di Jikan. Gli anni 80 lo vedono scrittore e musicista con il sound sperimentale di Various Position, per culminare, alla fine del decennio, con I’m Your Man: album in cui l’artista abbandona la chitarra per la tastiera e che susciterà l’entusiasmo della critica americana, la quale definirà la voce di Leonard “simile ad un rasoio”.

Di qui in poi seguono successi e dischi inediti, contribuendo a consacrare la fama di un artista che, nella sua lunga carriera, è riuscito con impeccabile grazia a fare del suo dono un mezzo per trattare, con i toni più intimi, temi di portata universale. Dal sesso, per lui “momento di riposo su un letto di spine”, che si incarna in Janis Joplin, a cui è dedicata New Skin for the Old Cerimony; all’amore, la religione, la giustizia sociale, passando per l’ironia di Tower of Song, la morte e il suicidio di Nancy, che in Seems so long ago, Nancy “cerca la sua serenità dal terzo piano”, per giungere alla Storia con The Future. Vincitore di numerosi riconoscimenti (fa parte della Rock and Roll Hall of Fame), Leonard Cohen oggi, ad 82 anni, lascia il mondo per divenirne leggenda – lui, il poeta della musica, che sottovoce ha confessato: «Negli ultimi tempi, ho detto di essere pronto a morire e queste canzoni ne sono la prova, ma credo di avere esagerato. In realtà vorrei vivere in eterno o, almeno, vivere per i prossimi duemila anni».

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Giulia Petroni

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