Cultura. Il magico disincanto nella poesia di Alda Merini

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Un articolo di Isabella Cesarini sulla poesia di Alda Merini, metafora della donna che accende la lanterna nell’aforisma della “Gaia Scienza” di Friedrich Nietzsche

Il disincanto è l’effigie di un’onda anomala, la fotografia stinta di una fragorosa deflagrazione, la pennellata violenta su una tela di pastelli. L’orco delle fiabe, che annienta tanto prezioso malloppo, sollevato dalla fenomenologia dell’illusione. Inaspettatamente lascia l’individuo al cospetto dell’immagine più temibile: la propria nudità. L’illusione al contrario, disegna l’espressione della levità, abita il campo del gioco e si nutre di leggera inconsapevolezza: tensione verso un infinito fatto Arcadia. È lo sguardo furtivo nel verso di un dormiente, lo sfioramento e poi la fiamma di due labbra, la voglia delle carni che bussa nell’attorcigliarsi dello stomaco. Il miraggio si aggiusta nel breve periodo; carnalità che si brucia. È frenesia che si inerpica sino alle vette più alte dell’impeto. È fugace, breve, dolorosa. E quando, accomodati sul trespolo di quella vetta infine raggiunta, improvvisamente si viene catapultati nell’abisso della disillusione. Quanto l’incanto è lieve e breve, tanto il disincanto è rimbombante, oltremodo nella dilatazione del tempo.

Tra i due estremi, precede sommessamente un altrove, una quiete dentro la quale accade l’opera certosina della costruzione mosaica. È il “pre-incanto” senza l’operosità del quale, ascesa e calata non tenterebbero la strada. Un impegno minuzioso opera sapientemente sul sagomare di un corpo e una mente. Costruisce grattacieli di bellezza su asmatiche località di cemento. Figura acque cristalline, sopra stagnanti acquitrini. Realizza la più importante delle opere: regalare bellezza al mondo. Lo stesso, che nel mentre, resta immobile e indifferente. O saturo di stanze vuote nel silenzio di un ospedale psichiatrico. Ma non importa come sia l’universo, l’individuo vive il desiderio, spesso celato, di vedere la potenza di un cuore spalancato. Apertura che prescinde dalla natura della creatura che si ha di fronte o ancora dal cosmo nel quale si dimora. Dopo la magia, la discesa giunge come un guizzo, in un giorno qualunque, fosse anche il momento della distrazione, arriva, indugia e si ferma per dar vita a un nuovo momento. Il tempo della creazione poiché è proprio dentro la disillusione che l’emozione raggiunge l’apogeo: l’addio. Commiato all’amante, alla noncuranza del fuori verso il dentro, all’abulica imperturbabilità. È un addio invocato, quasi bramato sin dal momento dell’incanto, perché tutto non si annichilisca in un ineluttabile fine in compagnia di un’accidia portata in trionfo. Il disincanto è un urto grandioso, la linfa vitale dell’artista, la creazione umana per l’amante. Figura il momento fatale sino alla mitologia di ogni legame, non per vezzo di paradosso, ma esclusivamente per tutta quella mole imponderabile di scombussolamento che prende a muovere mente e corpo. Lasciarsi travolgere, conquistare, finanche colonizzare dalla disillusione.

Prima di finire nella patologia compulsiva da disturbo di aforisma da social network, morbo, che negli anni, ha inghiottito molti noti come Charles Bukowski, tanto per fare una altro esempio, quella di Alda Merini è sopra ogni cosa una poesia del disincanto, dentro una lirica della disillusione creativa. Un dolore che si scrive nel colore del sangue, ma con il fluido dell’inchiostro. L’anima sensibile nel fardello dell’emotività, si nutre dell’illusione: il suo cuore abbisogna di schiudersi in una calla bianca che tende al cielo dell’infinito. Alda Merini non è un congegno virtuale da mettere all’occhiello di una rete, per farla finire in quell’orrendo suolo dell’abusato. Alda Merini è la metafora della donna che accende la lanterna nell’aforisma della “Gaia Scienza” di Friedrich Nietzsche, la figura che è arrivata eccessivamente presto e per questo trattenuta per lunghi anni nel vuoto di un padiglione. Voragine colmata dai numerosi scritti donati, opere che vanno dalla poesia al diario segreto, sino alle lettere. Lei è tutta in quelle parole di fumo, attesa e amore. Quello più grande, per la vita, nonostante tutto. Uno struggimento che accompagna tutta la sua opera, senza farsi mai abbattimento, abulia, rigidità. Nel dolore si ritrova la spinta alla pagina, alla passione, al perseverare. Non circoscriviamo una grandezza nel puntino di un aforisma lanciato nel vuoto della rete. E se anche volessimo farlo, tentiamo di attraversare e calpestare il suolo, spesso scivoloso, di colei che alla poesia ha donato la bellezza del dolore, la dolcezza del disincanto, il bisogno dell’attesa, il desiderio, scontato in molti, di guardare e vedere un cielo, anche il più grigio. Anche nella prosa “L’altra verità. Diario di una diversa” riesce a fare l’epifania della vita pur nell’inferno di un manicomio. Tra patologie infauste, creature in preda alla malattia, elettroshock e farmaci pietrificanti, nel libro del male vi è la vita di un’artista che grida alla vita. Di lato, ma non mestamente, si scrive anche una situazione storica di quel “prima” della legge Basaglia, dell’inadeguatezza e l’incapacità di determinate strutture.

“Si parla spesso di solitudine, fuori, perché si conosce solo un nostro tipo di solitudine. Ma nulla è così feroce come la solitudine del manicomio. In quella spietata repulsione da parte di tutto si introducono i serpenti della tua fantasia, i morsi del dolore fisico, l’acquiescenza di un pagliericcio su cui sbava l’altra malata vicina, che sta più su. Una solitudine da dimenticati, da colpevoli. E la tua vestaglia ti diventa insostituibile, e così gli stracci che hai addosso perché loro solo conoscono la tua vera esistenza, il tuo vero modo di vivere”

Ma è proprio nel tormento che l’essere umano si scopre tenacemente attaccato ai piccoli gesti, quelli che quasi meccanicamente si compiono tutti i giorni. La possibilità travolge nell’impossibilità. La libertà rende schiavi proprio in virtù del suo principio: l’idea di essere liberi imprigiona in una morsa del non fare, del non dire e farsi degni nel regno della desolata immobilità. Al contrario l’esser trattenuti da qualcuno o da qualcosa restituisce la possibilità di distinguere un orgasmo dall’altro, di masturbarsi con l’agognata immagine di un cielo che non si può vedere, di eccitarsi nel quotidiano: la prigione svela l’essenza della libertà.

Il manicomio, il luogo più esterno alla vita, non era fatto solo di pastiglie ed elettroshock, ma di amore. Un sentimento che indirizzavo sulle cose più semplici, sui gesti più elementari. Se uscivo, come a volte accadeva, gli altri matti mi chiedevano di comprargli le sigarette, il vino, la cioccolata. E se mi riusciva di farlo, sentivo che il legame affettivo che la follia a volte crea tra le persone è più forte di quello che ci procura la normalità.

Ma sono certamente i versi a restituirci la grandiosa immagine di una creatura, che nella sofferenza, conferisce armonia e magma alle parole. Nell’ultima parte di “Vuoto d’amore” un’antologia di poesie, trova spazio “Terra Santa”, quaranta poesie generate proprio dai suoi dieci anni all’interno dell’ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano.

Pensiero, io non ho più parole.
Ma cosa sei tu in sostanza?
qualcosa che lacrima a volte,
e a volte dà luce.
Pensiero, dove hai le radici?
Nella mia anima folle
o nel mio grembo distrutto?
Sei così ardito vorace,
consumi ogni distanza;
dimmi che io mi ritorca
come ha già fatto Orfeo
guardando la sua Euridice,
e così possa perderti
nell’antro della follia.

A fronte di chi pur potendo vivere, preferisce sopravvivere, di chi sceglie di ascoltare invece di sentire, vivono universi che sono così pulsanti da far affiorare la curiosa immagine di una matrioska: creature dentro altre creature. Persone che custodiscono l’energia di un gruppo davanti a singoli che si fanno fantasmi, anni prima della fine. Sono quelli che “gli altri” definiscono i folli; coloro che non si arrendono, pur arrancando nel vivere in una società, che per diversi motivi, domanda appiattimento. Sono i bizzarri che lottano con la lanterna in mano, contro mostri invisibili ai più, poiché l’ardimento e la passione dirompono, non contemplano argini e spesso dal cuore passano a una mente che non è capace di trattenerli.

Spazio spazio, io voglio, tanto spazio
per dolcissima muovermi ferita:
voglio spazio per cantare crescere
errare e saltare il fosso
della divina sapienza.
Spazio datemi spazio
ch’io lanci un urlo inumano,
quell’urlo di silenzio negli anni
che ho toccato con mano.

La mente spesso non segue le zigzaganti traversìe del cuore; ancora un’asimmetria tra un pulsare troppo forte e una scatola troppo piccola per farsi custodia, trascinano in un altro spazio. Quell’altrove che dentro la lirica del disincanto creativo nel verso della follia, l’arte di Alda Merini ha saputo esprimere sino al vertice della partecipazione emotiva. Certa di non farle torto nella postilla (impossibilitata nello scriverla a mano) di un altro cantore del disincanto, Carmelo Bene.

“Nietzsche è impazzito, ma se l’è meritato. Qui invece di pazzi ne abbiamo fin troppi che non se lo sono sudato, non se lo sono guadagnato. Questo è il discorso. E sono squallidi, mediocri.”

@isabellacesarini

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Isabella Cesarini

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