Il caso. Breviario (senza sconti) delle crisi dei quotidiani cartacei in Italia

Lettori dei giornali di una volta
Lettori dei giornali di una volta

È notizia di ieri che il Sole24Ore, il principale quotidiano economico italiano, nonché foglio della Confindustria, è praticamente sull’orlo del fallimento. Ad annunciarlo è il Comitato di redazione, l’assise sindacale del gruppo editoriale, che ha diramato alle agenzie di stampa un comunicato nel quale sollecita l’editore a “fare presto perché l’emergenza obbliga ad un ribaltamento totale della prospettiva: abbiamo bisogno di verità al posto della realtà parallela e di progettualità di lungo termine per costruire il futuro”. La Confederazione degli Industriali italiani è pure essa in crisi, come non potrebbe non esserlo il suo giornale? E a volere essere più realisti del re bisognerebbe pure dire che di industriali in Italia ne sono rimasti talmente pochi che pure una confederazione rischia di essere qualcosa di ridondante: il tessuto economico dello Stivale è affidato alle piccole-medie imprese, i grandi gruppi o sono finiti o hanno scelto l’estero, o dall’estero sono stati acquistati. Di chi dovrebbe ingigantire le istanze un giornale se il suo stesso editore non esiste?

È notizia di qualche giorno fa invece che il gruppo MonRif, quello che edita i regionali La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino contenuti nel dorso sinergico del Quotidiano Nazionale-Qn, per ciò che compete alla Toscana, e pertanto alla Nazione, ha fatto sapere di volere chiudere quattro redazioni minori: Sarzana, Montecatini Terme, Pontedera, Livorno. Per molti che leggeranno quelli appena fatti sono nomi che neppure sono collocabili su una cartina geografica, epperò anche questo la dice lunga sull’eccesso di reazione avuta, vale a dire uno sci operone ad oltranza dei giornalisti in pianta organica, con tanto di comunicato del CdR che condanna i collaboratori di volere sabotare cotanta forma di protesta andando alle conferenze stampa e scrivendo per le edizioni online. Siamo al punto che i garantiti con contratto se la prendono coi poveri cristi, spesso ragazzi di 35 anni – questo è il Paese in cui la gioventù del resto viene sempre differita in avanti – che con quelle collaborazioni ci campano, e a giudicare dai borderò pure male, visto che si parla, nelle esime cronache locali, di una media di 4 euro lorde ad articolo. Ma d’altra parte quando si fanno i picchetti si devono fare bene.

È notizia del 29 settembre che il Manifesto, lo storico giornale comunista, è tornato in edicola edito da una cooperativa di giornalisti che hanno rilevato la testata e la gestiscono. Tornato in edicola dopo una fase di transizione tra online, social media e via discorrendo. E con la schiettezza che contraddistingue i vecchi comunisti, la direzione del Manifesto ha pure rivendicato la necessità della scelta della carta.

Viviamo in un momento in cui la carta stampata è all’apice della sua decadenza. I giornali costano un euro e mezzo, vale a dire quanto la razione di pane che uno mediamente consuma al giorno. Solo che un giornale dà meno sazietà. In tutti questi anni, per la verità gli ultimi trenta, abbiamo assistito al cambio di pelle delle varie proprietà: non abbiamo più gruppi editoriali nelle mani di editori puri. I giornali sono diventati aziende quotate e come tali appetibili, quando andavano bene, per gruppi che su di esse volevano investire. Non stupisce che il consiglio di amministrazione del Corriere della Sera è una riunione dei maggiori banchieri d’Italia, da Mediobanca a Intesa, e chi fa ancora il verginello, dopo quello che è accaduto in questo Paese, o è alienato o ha la coscienza sporca. Il Messaggero di Roma è in mano ad un imprenditore del mattone, legittimo certo, ma non si venga a dire che i conflitti d’interesse poi non emergono. L’editoria italiana ha preso il buono dello statalismo coi contributi pubblici a pioggia, un mare di soldi, e ovviamente il buono del capitalismo, buttando via il cattivo di entrambe le parti o non volendoci fare i conti. Finché la ruota ha girato con il vento a favore nessuno che abbia alzato il dito, oggi che la trippa per gatti è finita, quegli stessi azionisti dei consigli di amministrazioni chiedono di applicare alle aziende editoriali, ma pur sempre aziende, piani industriali di risanamento. Che in larga parte contemplano anche i tagli. Lesa maestà, ovviamente, attacco alla libertà d’informazione, editori censori, e via discorrendo. Non si può avere botte piena e moglie sbronza, se si accetta di giocare a certe regole, poi il conto arriva.

La qualità (scarsa) dei prodotti giornalistici 

C’è poi tutto un capitolo sulla qualità dei prodotti in sé, che sono rimasti ancorati ad un modello preistorico dell’informazione. Oggi le news corrono sui social media, che hanno surclassato pure la tv. Ostinarsi a produrre carta con la medesima logica degli anni Cinquanta è come se volessimo curare un’infezione senza antibiotici. Non ci sorprendiamo delle conseguenze. Del resto, però, questa Italia con le tecnologie non ha mai voluto avere un rapporto concreto: siamo nel 2016 e ancora parliamo di banda larga su scala nazionale, ma ovviamente siamo fermi agli studi di fattibilità e ai protocolli d’intesa. Lo scontro generazionale ci mette infine del suo: giornalisti che vanno in pensione ma che comunque sentono il bisogno etologico di firmare persino le conferenze stampa sulle sagre del tortellino, togliendo spazio ai nuovi collaboratori che già faticano e che invece potrebbero avere da una parte più spazio, dall’altra maggior possibilità di entrare stabilmente. Certo provvedimenti come il Jobs Act non aiutano, ma è come quando il paziente è debilitato per la cura da cavallo: se ci mette pure del suo spappolandosi il fegato con bagordi di alcol, sicuramente è più difficile che la terapia abbia il minimo effetto.

Le scuole di giornalismo

Sono poi nate le scuole di giornalismo, che hanno raccontato ai giovani che il mestiere di giornalista si studia su un libro come una poesia di Leopardi. Senza mai entrare in redazione bensì venendovi calati solo alla fine di molte pagine di teoria imparate a memoria. Tanti auguri.

L’antropologia di un popolo

Poi di sicuro c’è che un po’ la crisi, un po’ l’antropologia di un popolo, hanno prodotto da una parte la classe dirigente che tanto è vilipesa dalla gente, dall’altra la classe giornalistica in linea con quella medesima classe dirigente e che riesce persino a tesserne gli elogi. Nello sputtanamento più generale, sia concesso il francesismo, non stupisce che alla fine un euro e mezzo si finisca per spenderlo in panetteria e non in edicola.

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Matteo Orsucci

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