Ritratti. Rivaroli il dandy ante litteram che si opponeva alla Rivoluzione

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Rivaroli

Generalmente considerato uno dei minori della letteratura europea, Antoine Rivaroli, meglio noto come il conte di Rivarol o di Rivaroli, fu un esperto linguista, scrittore e giornalista, saggista, oltre che brillante polemista del periodo storico probabilmente più fertile che, dal punto di vista intellettuale, ci sia mai stato, quel XVIII secolo passato alla storia come il secolo dei Lumi.

Il critico romantico Sainte-Beuve definisce la sua origine “inextricable”, cioè poco chiara, per quanto riguarda la pretesa ascendenza nobiliare. Ciò che è certo è che Rivaroli fu un grande animatore dei salotti culturali della Parigi del Settecento. Stando alle descrizioni dei suoi contemporanei era un uomo estremamente elegante, si potrebbe dire un dandy ante-litteram: pare avesse un modo tutto aristocratico di portare eretta la bella testa, e fosse dotato di battuta sempre pronta e sagace. Nelle cronache mondane parigine, dove non tarda a mettersi in luce, compare come un vero e proprio arbiter elegantiae.

Amava firmarsi con vari pseudonimi altisonanti, quali: Comte de Barruel (Conte di Barruel), Chevalier de Kermol (Cavaliere di Kermol), R.V.R.L., Salomon (Salomone). Ma le sue origini, in verità, sono modeste. Antoine proveniva dal Piemonte. Suo padre di mestiere faceva l’ oste, ed egli era il primogenito di sedici figli, cosa che di sicuro non gli consentì la vita agevole che il suo spirito dedito all’ozio filosofico avrebbe voluto. Passa gli anni di studio in seminario, come molti a quel tempo, cambiando diversi luoghi e cominciando, al termine della sua formazione, anche a svolgere opera di istitutore.

L’attività pubblicistica controrivoluzionaria

Nel 1777 Antoine si trasferisce finalmente a Parigi, dove comincia a frequentare la bella società. Ma Rivaroli non è un intellettuale fatuo e superficiale. I suoi interessi, sono di massimo spessore. Si occupa con grande dispiego di energie della lingua francese, approfondisce la conoscenza della Divina Commedia, e si dedica alla ricerca storica d’ambito romano. Eppure, la sua prima opera compiuta, sarà una sorta di parodia, nella quale vien fuori tutta la sua verve satirica: Le chou et le navet, del 1782, cui farà seguito il Discours sur l’universalité de la langue française, dove individua nel linguaggio uno dei principali fattori di civilizzazione della società. La fama però arriva solo nel 1788 con l’opera scandalosa Petit almanach de nos grands hommes, vera e propria galleria satirica di alcune personalità dell’epoca. Contemporaneamente collabora alla rivista letteraria Mercure de France, e dal 1790 prende parte, in veste di ironico polemista alle pubblicazioni di varie testate. In un articolo pubblicato sul Journal politique National così avrà ad ironizzare sul tema rivoluzionario della “sovranità popolare”: «Ci sono due verità che non bisogna mai separare, in questo mondo: primo, che la sovranità risiede nel popolo; secondo, che il popolo non deve mai esercitarla».

Ha scritto di lui Ernst Jünger, che ebbe a curarne una raccolta di massime: «La finezza, a cui era giunto lo spirito francese alla fine dell’Ancien Régime, doveva sprofondare con il suo depositario, la vecchia società […]. Quanto a Rivarol bisogna dire che, rispetto alla forma, egli partecipava sì di questa eredità e tuttavia andava più a fondo. Per questo, in un tempo in cui la Rivoluzione era al massimo della sua potenza, egli poté volgere la parola contro di essa».

Quanto mai tragicomico sarà il ritratto che Rivaroli presenterà della figura di Luigi XV, padre di Luigi XVI, il re ghigliottinato: «Ho conosciuto un gran signore – dirà – che si interessava molto alle ruberie che si commettevano nella sua casa: “Il tale mi deruba di tanto – diceva – il tal altro di tanto e tutti insieme di tanto; ma io li tengo con me e forse ne assumerò di peggiori. D’altronde sono abbastanza ricco per arrivare alla fine dei miei giorni; mio figlio si arrangerà a suo piacimento”».

A dimostrazione della sua opposizione al nuovo ordine rivoluzionario, nel 1790 pubblica un’opera quasi omonima della precedente, e dal titolo altrettanto significativo: Petit dictionnaire des grandes hommes de la Révolution, dove vengono messi alla berlina personaggi come Robespierre, Marat, Danton. Si tratta di uno scritto che, a differenza dei precedenti, non è anonimo e difatti gli procura non pochi problemi; ciononostante si ostinerà a voler restare a Parigi.

L’ultima fase della sua vita

Ma, dopo aver resistito sino al 1792, re Luigi XVI lo inviterà ad abbandonare la capitale. Appena in tempo. Pochi giorni dopo, la plebe dei sobborghi fa irruzione alle Tuilléries, costringendo il re a indossare il berretto frigio repubblicano. Quando gli sgherri di Robespierre bussano alla porta di Rivaroli, chiedendo «Dov’è il grand’uomo? Lo vogliamo accorciare un po’», Antoine aveva fatto già armi e bagagli e raggiunto la prima tappa del suo esilio, Bruxelles.

Proprio a Bruxelles, il nostro Antoine incontrerà il legittimista e romantico Chateaubriand, il quale parlerà di questo incontro nelle sue Memorie d’oltretomba. Stando a quanto riportato da Chateaubriand, però, non si trattò di un incontro felice. Chateaubriand, infatti, considerava Rivaroli un “fatuo” ancora imbevuto di razionalismo lockeiano. Del resto Rivaroli in ambito religioso non nasconde, sulle prime, quello che Sainte-Beuve definisce “un alto epicureismo”, che in fondo si identifica con quello spirito libertino che pervase l’intero XVIII secolo, facendosi beffe di ogni superstizione, e purtroppo, spesso, di ogni valore. Ma alle prime avvisaglie della Rivoluzione, ecco che Rivaroli si rende conto che il termine “fanatismo”, che fino allora aveva creduto dovesse adoperarsi solo per le credenze religiose, calza a pennello anche per quella nuova infatuazione democratica che ormai pervade l’intera Francia. «Della storia la ragione è narratrice, le passioni sono attrici» avrà a sostenere, riguardo gli abomini causati dalla Révolution.

È l’inizio dell’ultima fase della sua vita, caratterizzato da una sorta di inattività forzata, dovuta a quella “pigrizia” – attribuitagli da Sainte-Beuve – di chi sente d’aver perduto ogni ragione per cui vivere, che spinge lo scrittore a vagabondare di città in città, alla ricerca di una stabile occupazione editoriale. Da Bruxelles sino a Londra. Poi ad Amburgo, nel piccolo sobborgo di Hamm. Infine a Berlino, dove una febbre improvvisa conclude, il 5 aprile 1801, un’esistenza che i piaceri e un’indefessa attività intellettuale avevano consunto.

Negli ultimi anni della sua vita, Rivaroli si aprirà sempre più verso quel Dio, da egli riconosciuto, con spirito settecentesco imbevuto di fisica newtoniana, come garante dell’ordine costituito, mirabile ordinatore del cosmo la cui esistenza è confermata da prove sparse sia nell’infinitamente piccolo, «le sostanze e le affinità dei corpi», sia nell’infinitamente grande, «gli astri e le leggi dell’attrazione». Ma la prova più convincente è quella che nasce nell’interiorità, dal bisogno, che Rivaroli sente fortissimo, d’esser liberato «dal caos e dall’anarchia delle idee».

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