Ritratti. Lyautey colonialista dal volto buono tra fede e fascinazione per l’Oriente

Il Maresciallo di Francia Hubert Lyautey (1854-1934)
Il Maresciallo di Francia Hubert Lyautey (1854-1934)

Le vicende del colonialismo europeo in Africa tra il XIX e il XX secolo rappresentano un capitolo controverso della storia dell’Occidente. Conclusasi l’epoca dei grandi movimenti rivoluzionari e di liberazione, le implicazioni a lungo termine di quelli che sono stati i danni dell’imperialismo e della conseguente decolonizzazione, appaiono chiaramente solo oggi dinnanzi al disastro sociale e politico degli stati africane e all’immigrazione di imponenti masse d’uomini in Europa. Tuttavia quella dell’esplorazione del continente africano e della colonizzazione resta pur sempre una vicenda non priva di un certo fascino: un’avventura nella quale il desiderio di saccheggio e di sfruttamento di risorse umane e materiali, di arricchimento e di dominio, si affiancano il desiderio d’avventura e la coscienza di una missione civilizzatrice, per alcuni non priva di carattere religioso, europea. Quest’ultimo fu un chiaro elemento di propaganda dietro il quale si poterono facilmente mascherare, ad esempio, gli eccidi in Congo ed in Namibia, eppure non è bene sottovalutare l’importanza che l’impatto emotivo che the white man’s burden ebbe per le coscienze di tanti occidentali. I nomi di Livingstone, di Samuel Baker, di Gordon Pascià, figure luminose di eminents victorians, si affiancano a quelli non meno di privi di fascino, seppur d’un fascino oscuro, talvolta perverso, di Goldie, il padre fondatore della Nigeria, di Rhodes, di Stanley, avventurieri senza scrupoli che però contribuirono in maniera determinante al fascino colonialista. Per correttezza, riferendosi ai due maggiori colonialismi, quello britannico e quello francese, sul quale poi concentreremo l’attenzione, occorrerebbe distinguerne con chiarezza le caratteristiche dominanti. In Africa i Britannici applicarono un approccio non dissimile da quello attuato in gran parte dei territori d’oltremare soggetti al loro governo, ad esclusione di quelli australi: innanzi tutto la colonizzazione era un’impresa di carattere economico basata sullo spirito di intraprendenza del singolo che entrava in contatto con realtà sociali preesistenti, benché non considerate su piano paritario, cosicché i fondamenti del potere occidentale in quelle terre inesplorate erano dovute a società di commercio – The National African Company di George T. Goldie in Africa occidentale, la British South African Company di Cecil Rhodes – e il potere statale, attenuato ed indiretto, giungeva solo successivamente. Al contrario, la colonizzazione francese assunse i tratti della conquista militare e politica in gran parte delle situazioni. Il centralismo di matrice giacobina che caratterizza la politica francese trovò sua espansione anche in Africa, monopolizzando l’attività amministrativa e lasciando ben poco spazio di determinazione, seppur illusorio, alle realtà locali, fatto reso ancor più grave dal dato che nell’Africa del nord, al contrario che per quanto riguarda il territorio subsahariano, esisteva una società civile vitale ben prima dell’arrivo dei Francesi. Non è un caso che il processo di decolonizzazione dei territori coloniali francesi sia avvenuto in maniera dolorosa – l’Algeria ne è l’esempio più lampante –, che la mancata interazione con le forze civili locali abbia causato la mancanza di una classe dirigente capace e, dunque, il conseguente sfacelo politico, sociale ed economico. V’è però un caso che si distingue positivamente da ogni altro, ovvero quello del protettorato francese sul Marocco, un esempio che merita attenzione.

Il Marocco nel 1907

Il Marocco, retto all’inizio del XX secolo dalla dinastia alawide, era rimasto in gran parte escluso dal raggio d’azione dell’imperialismo europeo. Tuttavia si trovò ben presto al centro di una grave controversia che vide la Francia, appoggiata dal Regno Unito e dalla Spagna, contendere all’Impero tedesco la sfera d’influenza sull’ormai debole regno nordafricano. Ne seguì la conferenza di Algeciras, che istituì il controllo internazionale sul Marocco e, dopo la crisi di Agadir, nel 1912, il riconoscimento ufficiale da parte del sultano Mulay ‘Abd al-Hafiz del protettorato francese sul suo paese con la conferenza di Fès. Il malcontento popolare e l’abdicazione di ‘Abd al-Hafiz costituirono il casus belli per l’ingresso delle truppe francesi nel nuovo protettorato. Al comando dell’esercito v’era un personaggio inconsueto per la media degli ufficiali e che sarebbe stato destinato a lasciare un’impronta indelebile sulla storia del Marocco: il generale Hubert Lyautey.

Albert du Mun (1841-1914)

Lyautey era nato in Lorena nel 1854; allievo tra i più promettenti dell’Accademia militare di Saint-Cyr, qui si era reso conto perfettamente dell’isolamento di cui godeva l’esercito francese rispetto la società civile. Paul-Marie de La Gorce, uno dei maggiori storici francesi di cose militari, nella sua prima opera, Le Armi e il Potere[1], ricostruisce con minuzia la situazione in cui versava l’armée, l’Arca sacra della Francia, per utilizzare un’espressione dello stesso Lyautey, nei primi anni della Terza Repubblica: in seguito al disonore subito con la sconfitta nella guerra franco-prussiana, l’esercito pareva aver perduto gran parte del fascino e dell’ammirazione popolari di cui aveva goduto grazie alla grandeur ereditata dall’epoca napoleonica. Estromesso dalla vita pubblica e politica, anche in seguito al tentativo di colpo di stato del generale Boulanger, esso era divenuto il catalizzatore di quelle forze, aristocratiche o comunque monarchiche e clericali, che non si riconoscevano nell’ordinamento della Repubblica; il caso Dreyfus, come è noto, fu l’ultimo tentativo di queste forze di riabilitarsi di fronte all’opinione pubblica. Dall’altra parte proprio in Francia, parallelamente alla crescita dei consensi del socialismo tra la classe operaia, nascevano alcuni dei primi esperimenti del cattolicesimo sociale. Questi erano frutto di una lunga e gravosa elaborazione intellettuale che aveva preso inizio in seguito alla caduta del potere temporale del Papa e che era specchio della sentita necessità dei cattolici europei, emarginati nella società liberale di fine secolo, di trovare uno sbocco politico così come di godere di un ruolo nella società civile in conformità coi dettami dell’enciclica Rerum Novarum di Papa Leone XIII. Non è da sottovalutare il fatto che non furono poche le figure del mondo aristocratico a divenire artefici del cattolicesimo sociale, cui non mancarono talvolta accenti democratici e socialisteggianti; in particolare in Francia furono due ex ufficiali di cavalleria ad organizzare il movimento coi Cercles catholiques d’ouvriers: il marchese La Tour du Pin ed Albert du Mun. Lyautey stessi non fu immune a questo spirito: partecipò ai lavori del Circolo cattolico di Montmartre e creò nella stessa Saint-Cyr un comitato d’azione sociale pour aller au peuple. Fu soprattutto il rapporto con du Mun, deputato cattolico in Parlamento e, di fatto, esecutore in Francia delle volontà riformatrici del Pontefice, a segnare il pensiero di Lyautey. L’opera di beneficenza verso le classi più umili non era certo pratica nuova tra le classi agiate e persino nel mondo militare, tuttavia i cattolici sociali non intendevano fermarsi a questo. Era necessaria una vera e propria riforma morale della società affinché Cristo tornasse a regnare: questo percorso intellettuale condurrà, per quanto riguarda le sue faglie moderniste, al movimento del Sillon di Marc Sangnier, poi scomunicato. Lyautey fece proprie queste idee e scelse di applicarne nella vita militare.

Il generale con il sultano Yussuf

Giovane capitano di cavalleria, pubblicò sul numero del 15 marzo 1891 della Revue des Deux Mondes, cui era stato invitato a pubblicare da Melchior de Vogué, un saggio che suscitò ampio scalpore negli ambienti militari: Du role social de l’officier dans le service militaire universel. Lyautey auspicava, al di là dell’istruzione militare, un maggior ruolo sociale dell’ufficiale all’interno della società civile, non in veste di repressore bensì di educatore e riformatore, in primo luogo dell’esercito stesso. Si trattava del primo tentativo di un ufficiale francese di ricostituire i ponti tagliati con la società e, soprattutto, delineava una concezione del ruolo di ufficiale improntata al servizio pubblico anche al di fuori del teatro di guerra come promotore sociale: all’obbligo legale del servizio militare corrisponde l’obbligo morale di farne derivare le conseguenze più salutari dal punto di vista sociale (…) Altrimenti l’esercito procurerà ai suoi uomini soltanto una degradazione del sentimento morale, un disprezzo per la vita semplice e laboriosa e, sul piano fisico, una tendenza all’intemperanza e al sangue viziato… Il saggio valse a Lyautey la reprimenda del ministro della guerra Freycinet ed il consiglio da parte del capo di stato maggiore, generale de Boisdeffre, di dedicarsi alla guerra nelle colonie, in particolare a Tonchino. Solo dieci anni dopo il ministero della guerra prese seriamente in considerazione le intuizioni del capitano Lyautey ed instituì a Saint-Cyr il primo corso sulla missione sociale dell’ufficiale, destinato ad influire fortemente sulla promozione di una grande quantità di quadri.

Lyautey in Marocco

Lyautey svolse gran parte della propria carriera in colonia: in Indocina e in Madagascar con Joseph Gallieni, in Algeria, giungendo nel 1902 al grado di generale di brigata. Durante il suo servizio in Algeria, aveva sviluppato un vero e proprio amore per la cultura araba così come una certa conoscenza del Corano, mentre si era distaccato con scetticismo dal cattolicesimo. Nominato Residente permanente in Marocco – in incarico equivalente a  quello di governatore militare del protettorato – ebbe qui finalmente la possibilità di applicare il proprio pensiero all’amministrazione del paese. A differenza dei governatori di altre province coloniali francesi, Lyautey si distanziò da quel centralismo autoritario e burocratico che non corrispondeva alla sua natura: una modalità d’azione nella quale sono ravvisabili tanto la precedente esperienza nelle colonie affianco a Gallieni, un uomo che disprezzava le convenzioni… e odiava l’intera burocrazia gallonata[2], tanto il suo passato da cattolico-sociale. Il generale prestò particolare attenzione alle tradizioni locali, che non volle dissacrare, e alle autorità preesistenti, tributando grande deferenza al nuovo sultano Yusuf ben al-Hasan. Le terre tribali non vennero espropriate, vennero promosse leggi per tutelare le antiche medine, e il generale, un esteta conservatore, volle far edificare il palazzo del Résident a Rabat secondo i da lui tanto amati canoni dell’architettura araba. Il popolo marocchino doveva amare i Francesi, dal momento che gli Africani non sono inferiori, ma sono differenti, un’opinione certo molto dissonante rispetto a quella diffusa all’epoca, oltretutto espressa da un generale europeo. Dall’altra parte, pur promuovendo la cultura araba, Lyautey non tralasciò lo sviluppo delle opere pubbliche: grazie ai servigi dell’urbanista Henri Prost, il generale pose le basi alla costruzione, a Casablanca, di un nuovo porto e, ad Agadir, di una città Indigène e di una Nouvelle, favorì la costruzione di strade moderne e di una ferrovia, oltre che la penetrazione di imprese francesi su suolo marocchino.

Lyautey all’Accademia di Francia

Nel 1912, per iniziativa dell’amico du Mun, fu eletto all’Accademia di Francia. Richiamato a Parigi allo scoppio della Prima Guerra Mondiale (ebbe ad esclamare: Une guerre entre Européens c’est une guerre civile! C’est la plus monumentale ânerie que le monde ait jamais faite![3]), Lyautey fu chiamato a ricoprire l’incarico di ministro della guerra all’interno del governo presieduto da Aristide Briand; onorato del grado di Maresciallo di Francia nel 1921, quest’ufficiale esteta e riformatore volle subito tornare in Marocco, ma si vide ritirare il comando delle truppe in favore di Philippe Pétain. Ritiratosi infine a vita privata in Francia, si spense il 27 luglio 1934 nel suo castello in Lorena, non prima di essersi riconciliato con la fede cattolica della giovinezza. Il Marocco francese risentì a lungo dell’impronta datagli da Lyautey e, salvo qualche ribellione di minor conto, subì pacificamente la colonizzazione, così come ritrovò l’indipendenza senza il sangue e la violenza che caratterizzarono l’Algeria. Ancor oggi, non si potrà fare a meno di notarne la distanza rispetto agli altri paesi dell’Africa mediterranea: se certamente non è ricco, è però un paese guidato da un governo stabile, scevro dall’influenza tanto di quello che fu il socialismo arabo che dell’integralismo islamico. E, forse, potrebbe rappresentare un modello politico per gli altri paesi dell’area. Molto si deve anche a questo atipico generale francese, un po’ esteta ed intellettuale, che amò gli Arabi, il deserto, i palazzi arabescati dei sultani, la solitudine in campagna. Se fosse stato più giovane e meno diplomatico forse sarebbe potuto divenire un Lawrence d’Arabia francese ma, si sa, nella storia la figura d’ogni uomo è unica, a dispetto dei corsi e ricorsi di vichiana memoria.

[1] Paul-Marie de La Gorce, La République et son armée, Librarie Arthème Fayard, Parigi, 1963, traduzione italiana di G. Neri, Le Armi e il Potere. L’esercito francese da Sédan all’Algeria, Il Saggiatore, Milano, 1967.

[2] Hubert Gonzalve Lyautey, Lettres de Tonkìn et de Madagascar, in P.-M- de La Gorce, ibidem.

[3] Ibidem.

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Niccolò Nobile

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