Cultura. Il comunitarismo di Mishima in “Sole e acciaio”

Yukia Mishima
Yukia Mishima

Pubblichiamo un estratto di “Sole e acciaio” di Youkio Mishima, dal quale emerge la visione comunitaria dello scrittore patriottico giapponese, come alternativa all’individualismo.

O piuttosto avevo perduto la tragicità del gruppo, la tragicità in quanto membro del gruppo. Se fossi riuscito a identificarmi con esso, avrei potuto partecipare alla tragedia molto più facilmente, ma fin dall’inizio le parole avevano operato per allontanarmi sempre più dal gruppo.

Inoltre percepivo che la mia mancanza di idoneità fisica non mi avrebbe consentito una fusione con il gruppo, da cui ero quindi costantemente respinto; e il desiderio che provavo di giustificarmi mi indusse ad accumulare una addestramento verbale, con il risultato che simili parole rifiutavano protervamente ciò che il gruppo significava. O meglio, la pioggia di parola che continuava a cadere dentro di me come un acquazzone prima della luce dell’alba, nel periodo in cui la mia esperienza stava ancora germogliando, presagiva la mia impossibilità di integrarmi al gruppo. Il primo atto della mia vita fu la costruzione di me stesso tra quella pioggia.
L’intuizione della mia infanzia, che il gruppo rappresentasse il principio della carne, era dunque esatta. Fino ad oggi non ho mai sentito la necessità di modificarla. Fu negli ultimi anni, quando conobbi quella vertigine rosata ( da me definita “alba della carne”) che si manifesta dopo un uso violento del proprio corpo o al termine di una estrema fatica, che incominciai a capire il significato del gruppo.
Il gruppo era in rapporto con tutto ciò che le parole non avrebbero assolutamente potuto secernere: sudore, lacrime o grida. Analizzando più a fondo la questione, si scopre che il gruppo è in rapporto con il sangue, che le parole non sanno ne’ versare ne’ far scorrere. Forse è proprio perché sono parole della carne, che le lettere scritte, come si dice, con le lacrime e con il sangue, appaiono stranamente prive di espressioni individuali, e colpiscono invece per le loro generalizzazioni impersonali.

Nel momento in cui mi accorsi che l’uso della forza, e, di conseguenza, la stanchezza, il sudore, le lacrime, il sangue, potevano svelare ai miei occhi quel cielo azzurro sempre oscillante e sacro, e che erano essi la sorgente del tripudio dell’”io sono uguale a tutti” , forse presagii il giorno in cui, superando il dominio della personalità, in cui mi avevano imprigionato le parole, avrei potuto destarmi al significato del gruppo.
Il gruppo è infatti un indubbiamente un concetto di inesprimibile “sofferenza comune” che respinge l’uso delle parole.
Ai primi chiarori di un’alba all’inizio della primavera, come membro di un gruppo, stavo correndo in un freddo gelido, seminudo e con una fascia di cotone bianco su cui era stampato il Sole Levante, stretta intorno alla fronte.; dalla sofferenza comune, dalle stessa grida di incitamento, dallo stesso ritmo della corsa, dalla voci in coro, sentivo affiorare una sensazione profonda di tragedia, che altro non era se non la consapevolezza dell’identità comune!
Era la prima volta che mi fidavo degli “altri”. E gli altri appartenevano già a un “noi” , e ciascuno di noi, abbandonandosi a quella forza incalcolabile, apparteneva davvero a un “noi”.
In questo modo per me il gruppo rappresentava un ponte gettato verso qualcosa: un ponte che, una volta varcato, non consentiva più ritorno.  (da Sole e Acciaio)

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Yukio Mishima

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