Effemeridi. Christian de la Mazière esteta armato e seduttore di Dalida

Christian de la Mazière con Dalida
Christian de la Mazière con Dalida

22 agosto 1922. Nasce a Tunisi, Christian de la Mazière. Figlio di un ufficiale di Cavalleria, Clodomir Anatole de la Mazière, che aveva combattuto in Polonia contro i russi al fianco del Maresciallo Jozef Pilsudski nella Guerra sovietico-polacca del 1919-1921 e poi, in Francia era stato nel comando dell’École de Cavalerie de Saumur.
Dal padre il giovane Christian aveva ricevuto un’educazione tradizionale, caratterizzata da un nazionalismo intransigente; in casa la lettura quotidiana era quella dell’Action française che però poco interessava all’adolescente in formazione, a suo dire, più portato ad ascoltare la collera di Léon Daudet che la speculazione intellettuale di Charles Maurras, “j’avais besoin de vibrer et non de philosopher” scriverà, ricomponendo i passaggi fondamentali della sua vita nel suo Le Rêveur casqué.  E a 14 anni, come impongono le regole, arrivò il rifiuto dell’educazione paternae la scelta di schierarsi con chi combatteva contro l’ingiustizia sociale.

Fu quindi un giovanissimo giornalista a “Le Pays libre”, pubblicazione del PFNC, piccola formazione guidata da Pierre Clementi nella quale militò assieme ad altri personaggi destinati alla notorietà come Robert Hersant, il grande editore della stampa francese del dopoguerra.  Forse renderà meglio l’idea di quale gruppo politico si trattasse, decrittando l’acronimo PFNC: Parti Français National-Communiste, gruppo di tendenze fascio-comuniste fondato nel 1934 che nel 1940 sarà costretto a cambiare leggermente il nome (lasciando inalterata la sigla), in Parti Français National-Collectiviste per poter conservare l’agibilità politica durante l’Occupazione tedesca. A fianco dei sogni rivoluzionari il giovane Christian si dedicava alla passione per il volo civile, attività che si rivelerà utile in seguito, all’inizio della Seconda guerra mondiale quando fu allievo pilota di aerei da caccia nella base di Terrefort.
Dopo il tracollo della Francia e l’armistizio, riprese il suo posto nella redazione di “Le Pays libre”; i suoi slanci rivoluzionari non erano cessati e i suoi articoli proseguirono sulla stessa linea appassionata. Giunse l’ora drammatica nella quale le sorti della Collaborazione francese parevano ormai segnate senza più alcuna speranza, nell’agosto 1944, in una Parigi ormai prossima all’arrivo degli Alleati, un giovane operaio si presentò in redazione per annunciargli che i suoi scritti lo avevano convinto e aveva deciso di arruolarsi nei reparti francesi (ma si potrebbe meglio dire, europei o addirittura internazionali) che combattevano nelle armate del Reich.
Fu la folgorazione per Christian de la Mazière, si sentì improvvisamente investito della sua responsabilità: “Se non avessi fatto la scelta di seguire il suo esempio avrei dovuto vivere per sempre nella vergogna e nel disonore”. Decise quindi di arruolarsi nella Divisione “Charlemagne”, composta da francesi con la divisa delle Waffen-SS.
Restò solo il dramma di dover scrivere al padre per giustificare la scelta, un padre che “secondo le tradizioni della cavalleria non conosceva che una regola, quella della lealtà”; un ufficiale che aveva prestato giuramento e che si era rifiutato di accettare le proposte della Resistenza ma che dal novembre 1942, quando le truppe tedesche avevano invaso la Zona Sud aveva rifiutato anche ogni incarico dal Governo di Vichy.
Finì col rinunciare a scrivere quella lettera che il padre non avrebbe capito, la divisa che Christian stava per indossare per suo padre sarebbe stata comunque la “divisa del nemico” e ai suoi occhi non si sarebbe trattato che del “tradimento di tutta la sua educazione”.
Il giovane giornalista raggiunse quindi Wildflecken, il campo in Baviera dove si stava formando la nuova Divisione “Charlemagne”, alcune migliaia di giovani francesi (età media 19 anni), provenienti da ogni classe sociale, dagli operai agli aristocratici.  Dopo la guerra scriverà che nessuno sapeva del “fenomeno concentrazionario”, che la sua scoperta – come per moltissimi altri – lo costringerà “a riflettere”. Un percorso e una riflessione noti, basti pensare al regista Ingmar Bergman.
Dopo la dura e lunga formazione militare della quale La Mazière narrerà che gli pareva di fare il giro d’Europa, tra norvegesi, svedesi, lituani, polacchi, lettoni, estoni, russi, olandesi, valloni e addirittura indiani in turbante, alla fine di febbraio del 1945 la “Charlemagne” fu inviata in zona d’operazioni, ad affrontare i sovietici nel gelo della Pomerania, lui impiegato in un reparto di cacciatori di carri.  In tre giorni di combattimenti, la Divisione perse tremila uomini, alla fine si giunse al corpo a corpo.   A marzo Christian de la Mazière finì catturato da truppe polacche che lo consegnarono ai sovietici. Cercò di camuffarsi sostenendo di essere un operaio dello STO, il Service du travail obligatoire. Gli andò bene, riportato in Francia però la verità tardò poco a venire a galla.
Fece quindi un grand tour tra campi di concentramento e prigioni per finire nel carcere di Fresnes dal quale fu prelevato nel 1946 – a 24 anni – per uno sbrigativo processo durato solo due giorni al termine del quale fu condannato a cinque anni di carcere e alla perdita dei diritti civili per aver scritto i suoi articoli su “Le Pays libre” e aver indossato la divisa tedesca.
Nel 1948 beneficiò di una amnistia e iniziò una nuova vita occupandosi – come giornalista e poi come imprenditore di successo – di cinema e di spettacoli.  Entrò quindi nel circuito di un mondo sempre sotto i riflettori per cui furono noti i suoi legami sentimentali dapprima come compagno di Juliette Greco, poi con Dalida alla quale fu legato per tre anni, un rapporto proseguito come amicizia tra i tanti tormentati amori della cantante dopo la sua giovanile storia con l’ex parà della Légion étrangère Alain Delon.
Nel 1971 l’ennesima svolta nella vita di Christian de la Mazière: l’uscita del film-documentario “Le Chagrin et la Pitié” di Marcel Ophüls e Alain de Sédouy, un coraggioso tentativo di capire attraverso interviste e filmati la storia francese tra 1940 e 1944. Tra gli intervistati, come ex combattente della “Charlemagne”, anche de La Mazière.
Un intervento che pagò caro, con un nuovo e silenzioso ostracismo e la fine del suo lavoro di relazioni pubbliche.
Pubblicò quindi un suo primo libro di memorie dedicato alla sua scelta nella guerra, “Le Rêveur casqué”; libro che ebbe un successo straordinario, varie edizioni (anche de poches) per un totale di vendite di quattro milioni di copie.  Un amico, altro autore “maledetto”, Georges Brassen gli dedicò una canzone “Mourir pour des idées”.
Riprese nuovamente l’attività giornalistica, questa volta su giornali come “Figaro Magazine” e “Le Choc du Mois”, pubblicazione della quale per qualche numero negli anni ’90 fu anche nella direzione. Pubblicò quindi nel 2003 un nuovo libro, “Le Rêveur blessé”, dedicato alla seconda parte della sua vita, quella del dopoguerra. Nel frattempo, nel novembre 2001 gli capitò anche di finire – protagonista involontario – in uno dei soliti teatrini italiani. Era stato invitato a Trieste a come membro dell’Association des Amis de Robert Brasillach a tenere una conferenza su tre scrittori francesi, Louis Ferdinand Céline, Pierre Drieu la Rochelle e appunto Robert Brasillach, nel corso di una serata che si sarebbe dovuta tenere nello storico Caffè San Marco (locale frequentato a suo tempo da Saba, Svevo, Joyce e Rilke), con il patrocinio del Comune e presentata dal critico cinematografico Maurizio Cabona.
Venuto a conoscenza del “grave gesto provocatorio” lo scrittore Claudio Magris (peraltro autore caro a chi scrive per i suoi libri come “L’anello di Clarisse”, “Mito asburgico nella letteratura austriaca”, “Illazioni su una sciabola” e “Danubio”, per citarne solo alcuni) fece le bizze, scrivendo un editoriale per il “Corriere della Sera” e minacciando di togliere il suo ritratto dal suddetto caffè. In quella occasione Magris, per dimostrare la sua “equità” di valutazione rivelò che un suo giovanissimo cugino scegliendo la parte sbagliata era stato ucciso dai partigiani, argomento che pareva non entrarci affatto nella questione ma nonostante il quale lui non avrebbe tollerato, etc. etc. etc. La Mazière aristocraticamente abbozzò e non accettò la provocazione consentendo così all’irato Magris di riapporre il suo ritratto alle pareti del locale.
Christian de La Mazière è morto nel febbraio 2006.

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Amerino Griffini

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