Mostre. L’esuberante malinconia delle foto Polaroid di Andy Warhol

Autoritratto di Warhol
Autoritratto di Warhol

Quarantotto ritratti. Celebrità e due dettagli di corpi, nudi. L’istante di un viso, l’istantanea di un vezzo.

Clicca Andy Warhol sul tasto di una Polaroid ed è già social face. Ecco la suggestione che offre la mostra “Andy Warhol Polaroids for Art Collectors” curata dalla Galleria Photology in esposizione prima allo Spazio Pin Up a Milano, ora fino al 28 agosto a Noto. Già pensare Andy Warhol, essenziale e “verista”, a Noto tra i merletti fastosi e inquieti del barocco siciliano è rischio di dissonanza. Creativa, se la mitica macchina fotografica di Edwin H. Land finisce tra le mani, gli occhi e il guizzo folle dell’artista vate della Pop Art.

Pop Art e Barocco: collezionismo e serialità, perdita di senso e abuso di sensi,  tecnologia e metafora dissimulano uguale carica polemica e restituiscono uguale pompa di disfacimento.

La dissonanza è rischio anche nella fotografia, come forma d’arte e come pratica. Dissonanza tra estro ed uso. Tra il turista fotografo di Roland Topor con la macchina esibita e l’artista che cela la macchina nell’immagine. L’estro sostituito dall’uso del Photoshop, la sapienza nell’uso sostituita dal digitale ed ecco l’immagine immediata, condivisibile, postabile oggi con corteggio di like. La macchina fotografica che fissa i ricordi quotidiani è Pop. Popolare. Comune, accessibile, consumistica. Un’azione immediata dissonante con quella meditazione del disegno -per citare Henri Cartier-Bresson- che è la fotografia d’estro. La dissonanza, dunque. Le foto di Warhol sono quelle di una Polaroid esibita per arte, scatti privati di una narrazione snob, una collezione  di ricordi d’eccezione.

Warhol ricompone la dissonanza negli scatti fatti dentro la sua Factory. La fotografia come esercizio, scontornata avrebbe preparato i quadri.  La fotografia come gioco è oggetto privato, un ricordo nell’album quotidiano che Warhol costruisce, anche come screen test: una seduta di Polaroid poteva durare fino a tre minuti perché Warhol -spiega Davide Faccioli,  direttore di Photology e curatore della mostra- scattava fino a quaranta immagini, alcune restituite agli stessi personaggi fotografati.  Scatti non artistici, scatti di artisti. Warhol e la sua gente. Arrivava soprattutto l’America a stelle negli atelier di Andy Warhol, l’America degli eccentrici anticapitalisti, dei divi e degli artisti difficili. Tutti a favore di Polaroid per ritualizzare i ricordi: Joan Collins, Yul Brinner , Suni Agnelli, Ryan e Tatum O’Neil, John Mc Enroe sono alcuni dei volti fotografati da Warhol. Volti che si offrivano alla narrazione della boheme americana, elitaria alla Baudelaire, irrisolta e compiaciuta icona dell’antiborghesimo, flaneur per i viali psichedelici di Manhattan e per i bassifondi del vizio e della noia. Di questa boheme Warhol fu l’interprete e creatore, artefice affamato di novità da esporre al ludibrio della merce. Una foto del 1977: Paloma Picasso, Yves Sain-Laurent e Thadee Klossowsky in posa sopra un letto durante una festa; un’altra di due anni dopo coglie Loulou de La Falaise in una posa inavvertita. Fotografie della american way of life, che è interpretazione cool di un mondo in cui la regola piega verso l’ironia e l’originalità è ostentazione.

Mostrare e mostrarsi: l’imperativo di Andy Warhol. Mostrare la possibilità dell’arte di raccontare il quotidiano per dissacrarlo nell’ossessione dell’estetica oggettuale, dalle banconote ai visi, dalla Campebell’s Soup alle cover dei vinili, mentre l’America si crogiola nelle sue eterne contraddizioni, puritana e scandalosa, razzista e paladina dei diritti fino all’ossimoro della democrazia esportata. Che non è solo la pretesa di fare un mondo a forma di sé, ma -come la genialità morbosa di Warhol esprimeva- è la pretesa di livellare nell’epica del consumo la più ineguale delle società. Mostrarsi è l’epopea personale di Andy Warhol: lasciare nell’immagine il documento di un artista.  Un artista, uno. Andy Warhol. Megalomane, febbrile, egocentrico come pochi, inquietante, malinconico. Proprio così, malinconico. E gli scatti della mostra delle Polaroids  proprio perché privati, mai esposti da lui, alcuni rinvenuti tra le carte della sua Fondazione, altri venduti mentre Warhol era in vita rivelano l’inghippo della malinconia esuberante.

Rivelano il suo Barocco. Sempre a Noto fino ad agosto un’altra mostra: “Warhol è Noto. Il Barocco immaginario”, curata da Giuseppe Stagnitta:  più di cento opere della Collezione Rosini-Gutman, tra le più celebri e curiose (soprattutto i disegni ricettario). Ancora istanti di visi, pennellate di oggetti, collage di feticci. Ci sono le copertine della rivista  Interview e le foto “Tacchi a spillo” stampate su carta Kodak  (a proposito di fotografia), le cover dei Velvet Underground e di una rara Loredana Bertè, e poi le donne e i trans dai tratti esotici, e ancora Marylin Monroe, il pezzo unico Mao Tse Tung, Elvis Presley, Mick Jagger. Ad un certo punto quadri e foto fanno eco da una esposizione all’altra e Joan Collins si fa disegno, lo stesso Warhol moltiplica il suo autoritratto -o autoscatto?- e i fiori…

La serie ”Flowers”, che risale agli anni ’60, ha un’origine per così dire fotografica. Warhol, ispirato dalla fotografia di un ibiscus, inaugurò una nuova serie di serigrafie che oggettivano il sogno ribelle dei “figli dei fiori” e liquidano tutta l’arte floreale dai fiamminghi del Seicento al Liberty. I “Flowers” di Warhol sono smaglianti, rigidi, schiacciati. Evocano e nello stesso tempo ribaltano la “still leven” di un Willem  Van Aest o di un Rachel Ruysch, le cui nature morte di fiori scivolano dall’oggetto decorativo al simbolo dell’illusione barocca. Di un’illusione contemporanea si fa vate Warhol: riscattare dalla banalità di merce i soggetti leggeri  trasformandoli in un concetto artistico. Leggerezza che si fa concetto, macchina che produce metafora, Warhol barocco: dissonanza o serendipity?

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Daniela Sessa

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