Cultura. Con Sgarbi ritorna l’immancabile querelle fra intellettuali e pallone

Vittorio-Sgarbi-capra-urla-show-gayAi microfoni di Radio Campus, Vittorio Sgarbi se n’è uscito con una delle sue solite sparate al vetriolo: «Quelli che guardano la partita della nazionale mi fanno cagare», ha detto senza mezzi termini, riferendosi ai 14 milioni di tifosi che ieri sono rimasti incollati ai teleschermi per seguire la nazionale di calcio nell’ottavo di finale contro la Spagna. La sparata di Sgarbi, invero, non fa altro che rispolverare l’antica querelle fra intellettuali e pallone e sport in generale. Il re dei dandy Oscar Wilde, per dirne uno, ebbe a definire il rugby: «una buona occasione per tenere lontani trenta energumeni dal centro della città», affermando inoltre che mai un gentiluomo avrebbe dovuto praticare l’esercizio fisico. A dire la verità ci avevano già pensato i Monty Python a tentare di riconciliare  calcio e intellettuali, proponendo in un loro sketch una surreale finale di calcio tra filosofi.

A Jorge Luìs Borges si deve la laconica affermazione che: «Il calcio è popolare perché la stupidità è popolare». Tuttavia, anche se questa presa di posizione potrebbe sembrare banalmente antisportiva, alquanto qualunquista e molto semplicistica, soprattutto perché a proferirla è una mente di tale portata, di certo Borges non ce l’aveva con lo sport in sé, né in particolare con il calcio, ma con la figura del tifoso, dell’ultrà, che come chiunque sia preda di forti ed incontrollate passioni, spesso finisce per delirare e per fare, sovente, cavolate. Condivisibile è altresì quanto l’autore argentino avrà a dire circa l’entrata del calcio nel mondo dello spettacolo, dove la rappresentazione dello sport ha sostituito lo sport vero e proprio: «Non esistono questi sport fuori dagli studi televisivi o dalle redazioni dei giornali» fa dire in un suo racconto al presidente di un club di calcio. Per tacere di questioni incresciose come doping e calcioscommesse, aggiungiamo noi.

Ad altri autori, come Pasolini, si deve invece l’aver acutamente visto nella passione calcistica di molti individui, un connaturato bisogno di appartenere a qualcosa di più grande, di partecipare ad un rito collettivo, che per molti versi supplisce nella nostra epoca alla caduta di valori e princìpi: pensiamo all’amor di patria che risveglia la nazionale di calcio, capace di affratellare più del ricordo delle gesta dei padri fondatori, o al principio del capo che trova ampia forma di manifestazione nell’osanna tributato al campione di calcio, o al semplice appuntamento domenicale del campionato, che per molti è più sentito della celebrazione della messa.

“La finale di calcio dei filosofi” (1972), dei Monty Python

Nondimeno, anche nell’antichità classica, i vincitori dei Giochi erano oggetto di ammirazione e venivano immortalati in poemi e statue, grande era la loro fama. Tipico di Roma antica era il ludus, una pubblica celebrazione di giochi tenuta o in un teatro o nel circo, fatta in una ricorrenza religiosa o politica. I ludi furono sempre svolti in intima connessione col culto divino, e anche quando il sentimento religioso andò affievolendosi conservarono, almeno nella forma esteriore, il carattere sacro, fino alla più tarda età dell’Impero. A Roma durante i ludi apollinari, sul carro del vincitore campeggiavano le insegne dell’Impero che erano anche quelle di Giove: una folgore, una corona aurea e uno scettro sormontato dall’aquila romana. La vicenda dei giochi si presentava così come un’eroica lotta per il raggiungimento, tramite l’agone, dell’immortalità olimpica, proprio come accadeva nel mondo tradizionale nell’altra via dell’azione, la guerra. Tant’è che nei giochi si è potuta vedere una “guerra senza armi”. Così la stessa vittoria alata, la Nike, nel mondo classico, poté fungere da simbolo sia della vittoria in guerra, sia della vittoria nei giochi.

Molto differente è lo sfondo sul quale hanno luogo i moderni sport, incentrati come sono soprattutto sulla forza corporea, e sul risultato della vittoria fine a sé stessa, per mera «volontà di potenza». Anche nell’antichità, per la verità, in ambito sportivo vi furono episodi incresciosi, si pensi alla interruzione dei giochi olimpici del 393 d.C., a causa dell’intollerabile corruzione che li falsava.

In ambito filosofico, Aristotele accostò il gioco alla gioia e alla virtù, distinguendolo dalle attività praticate per necessità. Johan Huizinga ebbe addirittura a proporre un tentativo di definizione del gioco quale centro propulsore di tutte le attività umane. Il gioco per Huizinga, altresì, consente all’uomo di pervenire ad un “mondo altro”, al di là degli angusti limiti della mera funzione lavorativa, collocandosi all’interno della sfera spirituale, instaurando una realtà diversa da quella di tutti i giorni, costretta da necessità. Il gioco si sovrappone al lavoro meccanico e ripetitivo: in esso la fatica viene superata dalla gioia dell’azione libera e disinteressata. “Ludendo intelligo”, fu detto addirittura nel nostro Medioevo, evidenziando così il carattere pedagogico del gioco.

Certo, molte sono le ingiustizie e i problemi legati allo sport in genere ed al calcio in particolare, ma sicuramente l’importanza dello sport è tale che più che ridimensionato e ostracizzato, lo sport andrebbe anzi sacralizzato. Inoltre, è indubbio come esso rappresenti una valvola di sfogo necessaria per la gente, un po’ come accadeva durante le celebrazioni del Carnevale nell’antichità: «sermel in anno licet insanire» dicevano i latini, e poi diciamocelo francamente, per come si sono ridotti oggi altri domini sociali come la politica, la religione, la stessa cultura, il calcio e lo sport in generale rappresentano ancora, a discapito di essi, un degno surrogato di quello che nel mondo della Tradizione furono l’estasi e l’eroismo. Tuttavia solo una riscoperta dei domini della religione e della politica, potrebbero conferire nuovamente allo sport il suo significato perduto e oggigiorno solo percepibile a sprazzi. Diceva Henry de Montherlant che «lo sport coincide coi costumi». E che: «Lo sport sarà riformato quando sarà riformata la società».

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Giovanni Balducci

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