Eredità di impossibile trasmissione che si tramuta solo in un non atto: contemplare la distruzione che rinasce in creazione. Porre un sentito ascolto a quelle determinate note che suonano ogni volta in maniera differente. Le sue opere teatrali non figurano come la classicheggiante reinterpretazione dei classici. Sono puro atto di deflagrazione. L’opera “Pinocchio” non è la rivisitazione di Carlo Collodi. Pinocchio è il Pinocchio distrutto e ricreato di Carmelo Bene. Il teatro non è il teatro, ma una poderosa inesistenza che muove un presunto spettatore nei meandri dell’incomprensibilità; la stessa che si fa luce e chiarezza nel fragore della phoné. Un suono, che nella costante ricerca di Bene, diviene esplorazione del vuoto. Con la phoné, l’inaccessibile sfonda il muro dell’estraneità e approda al grande ascolto popolare, diversamente irraggiungibile. Nel distacco che accade in presenza di alcune opere, lo spazio più denso è nella contemplazione vuota e silenziosa che si avvera nell’attraversamento di un poema; del Poema: “’l mal de’ fiori”.
Il testo che non si fa testo. La parola che masturba il corpo, per rendere indicibile tutto il flusso della vita. La scrittura diviene l’enigma del movimento che scardina ogni vana dichiarazione. Non è possibile scrivere del poema dell’impossibile, non è realizzabile la recensione davanti lo sguardo “beniano” su uno scritto certamente fallimentare. Non si scrive: si invita. Si convoca l’occasione irripetibile di un ascolto, una gamma di sfumature che vanno dalla disarticolazione all’arcaismo, dal francesismo all’allitterazione: una danza circolare dove il frammentato si ricompone scomponendosi. L’esortazione a calarsi totalmente nella voragine dell’immediato: lo smembramento cede ferocemente il passo al sentire nell’accoglienza. Atto annientatore che si allunga nella ricostruzione.
Carmelo Bene ne “’l mal de’ fiori” non delizia dell’esistenza, ma di una speciale mestizia del non esserci. Petali destinati allo sfiorire, vivi nell’istante e deceduti nella discesa ineluttabile all’interno dell’inorganico. L’organico, assiepato da movimenti inorganici, destituisce il posto in favore di un’assenza che mai fu così fortemente presenza. Tutto sfiorisce. Il Poema ospita il lettore nello stagliarsi di una contemplazione pura come il palcoscenico “beniano”; il non luogo dove lo spettatore viene consegnato all’atto mancato. Alla meraviglia dell’incompiuto!
Questo ch’è tuo non essere mai stata
Questo ch’è tuo non essere mai stata
nommai avvenir
altro dal mal de’ fiori se non sono
che prossimi al fiorir chiama e si muore
idea di te che mi sorride questa
voce la mia non più se la disdice
questo tu sei lavoce che ti chiama
Tu che non sei che non sarai mai stata
il mal de’ fiori presso allo sfiorir
dolora in me nel vano ch’è l’attesa
del non mai più tornare
Te che mi fingo in che non so chiamare
Folle tua la mia voce
sono te che non sei Sono non è
dei morti Non è d’anima
in sogno l’immortale