Cultura. “‘l mal de’ fiori”, Carmelo Bene e la struggente meraviglia dell’incompiuto

Carmelo BeneScrivo da scrivente di chi non potrei scrivere. Nulla si dice di colui che non fu mai nato. Si sparla di un abortito che non ebbe inizio e ancor meno fine. L’opera d’arte definitiva, collocata in un altrove irraggiungibile: Carmelo Bene. Scrivo di colui, che nell’inesistenza del tempo, si dichiara un aborto vivente. Mai nato a Campi Salentina il primo settembre 1937 e mai preso dalla morte il 16 marzo 2002 a Roma. Carmelo Bene nel movimento perpetuo del suo divenire un capolavoro vivente, non si rende depositario di quella scuola da percorrere in fretta come atto dovuto. Non si fa disciplina e manuale di metodo da studiare in accademie di accademie che furono. Non è l’allievo, se non di sé; dunque non passa dall’evoluzione catartica nella figura reverenziale del maestro. Il “non nato” lascia al teatro un unico indissolubile patrimonio: se stesso.

Eredità di impossibile trasmissione che si tramuta solo in un non atto: contemplare la distruzione che rinasce in creazione. Porre un sentito ascolto a quelle determinate note che suonano ogni volta in maniera differente. Le sue opere teatrali non figurano come la classicheggiante reinterpretazione dei classici. Sono puro atto di deflagrazione. L’opera “Pinocchio” non è la rivisitazione di Carlo Collodi. Pinocchio è il Pinocchio distrutto e ricreato di Carmelo Bene. Il teatro non è il teatro, ma una poderosa inesistenza che muove un presunto spettatore nei meandri dell’incomprensibilità; la stessa che si fa luce e chiarezza nel fragore della phoné. Un suono, che nella costante ricerca di Bene, diviene esplorazione del vuoto. Con la phoné, l’inaccessibile sfonda il muro dell’estraneità e approda al grande ascolto popolare, diversamente irraggiungibile. Nel distacco che accade in presenza di alcune opere, lo spazio più denso è nella contemplazione vuota e silenziosa che si avvera nell’attraversamento di un poema; del Poema: “’l mal de’ fiori”.

Il testo che non si fa testo. La parola che masturba il corpo, per rendere indicibile tutto il flusso della vita. La scrittura diviene l’enigma del movimento che scardina ogni vana dichiarazione. Non è possibile scrivere del poema dell’impossibile, non è realizzabile la recensione davanti lo sguardo “beniano” su uno scritto certamente fallimentare. Non si scrive: si invita. Si convoca l’occasione irripetibile di un ascolto, una gamma di sfumature che vanno dalla disarticolazione all’arcaismo, dal francesismo all’allitterazione: una danza circolare dove il frammentato si ricompone scomponendosi. L’esortazione a calarsi totalmente nella voragine dell’immediato: lo smembramento cede ferocemente il passo al sentire nell’accoglienza. Atto annientatore che si allunga nella ricostruzione.

È un viaggiare sconnesso nell’inadeguato che risorge in principio guida. L’inciampo necessario alla percezione inevitabile del malessere di trovarsi in un corpo. Porre nuovamente l’ascolto sul pensiero che si dissolve in un’impossibilità che strozza il lettore in una potenza: l’ascolto di quella scrittura che sedimenta per ore, giorni o in un soffocato per sempre. Quel per sempre che sopravvive nell’assenza che ci abita: “Siamo quel che ci manca. Da per sempre”. Una lettura che è vertigine devastante; distruzione come brama. Smarrirsi in un mal de’ fiori, un verseggiare che ripiega su se stesso. Mostrare al mondo lo splendore della parola pulsante che è vita e morte, creazione e abbattimento, tutto e nulla. Un poema della “nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento”, ma che nell’assenza si fanno assordanti. L’ouverture nella manchevolezza. La nostalgia di Carmelo Bene non è lo Stimmung, lo stato d’animo o la bile nera della teoria umorale di Ippocrate, la mestizia “beniana” è la fecondazione operosa e scomposta sotto il cielo di Saturno. L’individuo, totalmente incapace di riconoscere e dichiarare il tedio del non vissuto, continua a coltivarlo nel sentire della propria carne. Vi è nel poema un’inattuabilità retorica, che circoscrive l’amante e l’amato all’interno di uno spazio vuoto di manchevolezza. Il desiderio si fa macchina e l’ingegno si dissolve nell’irrealizzabilità. È un’ode all’inorganico, una liturgia dell’altrove; un’accettazione quieta di una consistenza: la mancanza che colma e non si fa mai fardello. Nell’attraversamento del Poema, l’inclinazione più prossima figura nel sentire in parole: essere intimo all’inorganico e a tutto quello che non è e non sarà mai.

Carmelo Bene ne “’l mal de’ fiori” non delizia dell’esistenza, ma di una speciale mestizia del non esserci. Petali destinati allo sfiorire, vivi nell’istante e deceduti nella discesa ineluttabile all’interno dell’inorganico. L’organico, assiepato da movimenti inorganici, destituisce il posto in favore di un’assenza che mai fu così fortemente presenza. Tutto sfiorisce. Il Poema ospita il lettore nello stagliarsi di una contemplazione pura come il palcoscenico “beniano”; il non luogo dove lo spettatore viene consegnato all’atto mancato. Alla meraviglia dell’incompiuto!

Questo ch’è tuo non essere mai stata

Questo ch’è tuo non essere mai stata

nommai avvenir

altro dal mal de’ fiori se non sono

che prossimi al fiorir chiama e si muore

idea di te che mi sorride questa

voce la mia non più se la disdice

questo tu sei lavoce che ti chiama

Tu che non sei che non sarai mai stata

il mal de’ fiori presso allo sfiorir

dolora in me nel vano ch’è l’attesa

del non mai più tornare

Te che mi fingo in che non so chiamare

Folle tua la mia voce

sono te che non sei Sono non è

dei morti Non è d’anima

in sogno l’immortale

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Isabella Cesarini

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