Cultura. Adriano e l’orgia di teatro, l’eredità di Giorgio Albertazzi

Giorgio Albertazzi ne "Le memorie di Adriano"
Giorgio Albertazzi ne “Le memorie di Adriano”

Con Giorgio Albertazzi scompare l’ultimo degli istrioni, custode di un’idea di teatro severo e beffardo, affabulatore, ieratico, capace di piegarsi al guizzo del sorriso e al lampo di sguardo e voce. Volava come il Perseo calviniano, Giorgio Albertazzi: anche quando il pathos di Amleto o di Lear, o la gravezza dei rimorsi e del corpo cieco di Edipo avrebbero potuto, dovuto inchiodarlo alle assi del palcoscenico. Anche quando dal 1989 per quasi mille repliche è diventato l’imperatore Adriano. In un portentoso scambio di ruoli, nell’orgia cui assimilava, sconsiderata metafora, il teatro vero e il vero mestiere dell’attore Albertazzi ha trasformato il filosofo al potere della Yourcenar in un uomo attraversato da malinconica ironia. L’idea di teatro di Albertazzi sta nell’osmosi tra attore e personaggio: emarginato l’autore, surclassato il testo, resta solo l’anima, aureo catino di parole filtrate dapprima dalla hybris dell’attore.

In questi mesi di lutti importanti c’è il rischio che anche del dandy Albertazzi si faccia un’icona ideologica, sulla scia delle sue ultime dichiarazioni a proposito di Salò. Nel magma ideologico di Albertazzi si incarna lo stesso entusiasmo anarchico di testa e rivoluzionario di cuore di tanti artisti e intellettuali del Novecento, epigoni di tensioni nietzschiane convogliate in palingenesi di Destra e di Sinistra. Non aprono al dibattito quelle frasi. Hanno piuttosto l’estro della confessione, sono confidenza del passato e memoria di sé: il “Piccolo testamento”- per citare un passaggio del suo spettacolo “Lezioni americane”- di un uomo di teatro che ha attraversato un secolo con furori astratti talvolta, per di più appassionati. Albertazzi va consegnato alla poesia, al teatro, alla alchimia del poieìn, del mondo che Adriano rivendicò “vasto e inabitabile dei poeti”. E le confessate coerenza e dignità di vissuto spiegano tanto l’attraversamento quasi trentennale dell’imperatore Adriano come una necessità memoriale ed insieme rovesciamento del paradosso diderotiano.

Si provi a mettere l’uno dinanzi all’altro, l’artista seduttivo e l’imperatore seducente, si faccia del testo meraviglioso della Yourcenar lo specchio della loro vita e delle loro parole e se ne scopra il chiasmo, l’orgia di teatro in cui si consuma la voluttà dell’uomo e della maschera letteraria, in cui il teatro diventa vita.

Ci sono dei passaggi delle “Memorie di Adriano” che evocano il senso dell’essere e dell’esserci stato di Giorgio Albertazzi. Dell’essere stato dal 1989 Adriano.

L’uomo e l’imperatore.

Ero dio, semplicemente, perché ero uomo. […]Credo che mi sarebbe stato possibile sentirmi dio anche nelle prigioni di Domiziano o nelle viscere di una miniera

L’artista e il filosofo. “Qualsiasi felicità è un capolavoro: il minimo errore la falsa, la minima esitazione la deturpa, la minima insulsaggine la degrada. Alla mia non può imputarsi alcuna di quelle imprudenze che più tardi l’hanno infranta: sino a che ho agito nella direzione ch’essa mi indicava sono stato saggio. Ritengo tuttora che a un uomo più saggio di me sarebbe stato possibile essere felice fino alla morte

L’Amore, il più saggio degli dei…Ma l’amore non era responsabile di quella negligenza, di quelle asprezze, di quella indifferenza, mescolate alla passione come la sabbia all’oro trascinato da un fiume, di quell’accecamento grossolano d’un uomo troppo felice, e che invecchia

TRAHIT SUA QUEMQUE VOLUPTAS: ciascuno la sua china, ciascuno il suo fine, la sua ambizione se si vuole, il gusto più segreto, l’ideale più aperto. Il mio era racchiuso in questa parola: il bello, di così ardua definizione a onta di tutte le evidenze dei sensi e della vista. Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo

Frammenti dalle meditazioni di Adriano inimmaginabili ormai prive del ceruleo ammiccante degli occhi dell’attore Albertazzi, del suo viso aperto alla fiaba mondana, di una voce capace di modulare in suoni rigorosi e vibranti il senso dell’uomo sul palcoscenico della vita. Il canone dell’imitatio vitae riverbera nella lezione di un maestro teatrante, con il suo carico di curiosità, di scandali, di piaceri al limite dell’edonismo. Il genio di Adriano che tentò di contenere la molteciplità nella Potestas unius, la disciplina augusta e il genio dell’attore che chiede al personaggio asilo al numero delle vite di un uomo, un asilo di corpo e mente prima che di parole nell’ingenua provocazione della sudditanza delle parole alla presenza scenica.

Le parole ingannano: la parola piacere, infatti, nasconde realtà contraddittorie, implica al tempo stesso i concetti di calore, di dolcezza, d’intimità di corpi, e quelli di violenza, d’agonia, di grida

Lo stesso Adriano fornisce ad Albertazzi il metodo attoriale: trovato il calore, scovata la violenza la parola si concede alla scena. Si accampa animula vagula e blandula nel proscenio ad occhi aperti e muore nel donarsi al pubblico.

Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti…..Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti

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Daniela Sessa

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