Libri. Arriva “Verità Capitale” la versione di Alemanno sugli anni da sindaco di Roma

alemanno-14Sarà presentato domani, 28 aprile, alle ore 11 presso la sede dell’Associazione Civita in Piazza Venezia, 11 – Roma il libro dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno “Verità Capitale. Caste e Segreti di Roma”, edito da Koinè Nuove Edizioni. All’incontro interverranno Franco Bechis, Vice Direttore di Libero, Giammarco Chiocci, Direttore de Il Tempo, Antonio Padellaro, Presidente Società Editoriale Il Fatto, Gaetano Pedullà, direttore de La Notizia e curatore della prefazione del libro.

In anteprima, presentiamo ai lettori di Barbadillo.it un estratto dal libro.

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“Non conosco quell’uomo”: chiedo umilmente scusa se per introdurre le mie vicende personali uso una frase del racconto evangelico dell’abiura di Pietro, non è certo mia intenzione presentarmi come un martire. Ma se è vero che dai Vangeli si debbono trarre insegnamenti anche per comprendere le nostre esperienze di vita, credo che ogni persona che si sia stata oggetto di un’accusa infamante, abbia dovuto imparare a sopportare con cristiana pazienza l’abbandono anche da parte delle persone a lui più vicine. È successo anche a me, con due momenti distinti di ben diversa intensità. Dopo la sconfitta alle elezioni comunali del 2013, anzi, già di fronte ai risultati del primo turno che avevano fatto capire a tutti che Ignazio Marino avrebbe vinto la sfida, buona parte del mio ambiente di riferimento aveva cominciato ad allontanarsi. I collaboratori infedeli inseriti nella mia squadra di governo, le troppe persone beneficate con eccessiva generosità, o coloro che semplicemente volevano gettarsi dietro le spalle un’esperienza ingombrante, cominciarono a scoprire di avere vocazioni politiche e amministrative diverse dalle mie. Tanti avversari politici nel centrodestra, che dopo la vittoria del 2008 avevano dovuto rassegnarsi a diventare miei alleati, assaporavano la gioia di poter prendere le distanze non solo da me come persona ma da tutto quanto io potessi rappresentare. Non era certo mia intenzione rifiutare un’analisi, necessariamente dura e autocritica, di quanto era successo e di ciò che ci aveva portati alla sconfitta: un’operazione di questo genere sarebbe stata quanto mai utile e salutare per tutti, ma avrebbe comportato una condivisione di responsabilità e di percorsi. Invece l’atteggiamento prevalente fu quello della rimozione: si voleva ignorare la vicenda collettiva che aveva coinvolto tutto il centrodestra per scaricare le responsabilità solo sulle spalle mie e di alcuni miei stretti collaboratori.

Ho così scoperto di aver governato da solo. Anche coloro che avevano condiviso con me la scelta degli uomini e delle politiche, fingevano, o si autoconvincevano, di aver preso le distanze già molto tempo prima della sconfitta. Non basta: con il passare dei mesi la rapida parabola negativa dell’amministrazione Marino aveva prodotto una frattura tra gli orientamenti dell’opinione pubblica romana e quelli del mondo politico e giornalistico. Mentre l’establishment continuava ad avere un atteggiamento tetragono di condanna assoluta, ulteriormente enfatizzato per tentare di coprire il progressivo fallimento del “marziano” Marino, nella mente dei romani cominciava a crescere più di un dubbio sulla portata negativa della mia esperienza governativa. Erano persino comparse alcune scritte sui muri di Roma, riprese anche dai mass media, in cui si leggeva «Aridatece Alemanno», segno di un “palpabile rimpianto” che, secondo quanto ammesso da un giornalista di sinistra come Piero Sansonetti, cominciava a serpeggiare proprio tra le persone che vivevano più direttamente i problemi di Roma. Ovviamente questi atteggiamenti di rimozione e di condanna si moltiplicarono vertiginosamente dopo l’arrivo degli avvisi di garanzia del dicembre 2014. Un’accusa per mafia non poteva non provocare vere e proprie crisi di panico, con il risultato che per intere settimane, salvo una ristretta schiera di amici, rimasi praticamente isolato dal mondo. Ma, a differenza del passato, in quell’occasione non rinunciai a metterci la faccia, andando in televisione e rilasciando interviste giornalistiche. D’altra parte l’accusa che mi era stata rivolta era talmente grave da suscitare più perplessità ed incredulità che condanna e isolamento. Certo, passeggiando in mezzo alle strade di Roma, era facile incrociare sguardi impauriti e facce sbigottite, ma anche strette di mano, incoraggiamenti, sorrisi sinceri. Il grande privilegio di trovarsi in una situazione così drammatica è stato quello di poter azzerare qualsiasi ipocrisia e qualsiasi ambiguità: le persone veramente amiche si manifestano in tutta la loro linearità e anzi cercano di starti ancora più vicine, mentre chi non crede in te o ti disprezza non ha nessuna motivazione per nascondersi dietro una falsa cortesia. Quello che qui mi interessa sottolineare è il dato politico: la fragile rete di solidarietà del centrodestra, e in particolare della destra, era andata in frantumi con effetti tra il paradossale e l’autolesionista. All’arrivo degli avvisi di garanzia io ero iscritto a Fratelli d’Italia e componente dell’Ufficio di Presidenza di questo partito. Giorgia Meloni, che ha sempre avuto nel suo repertorio l’idea di fare concorrenza ai grillini nell’ostentare moralismo antipolitico, fu presa da grande preoccupazione, mentre tutte le persone che avevano mal sopportato il mio ingresso in quel partito ebbero l’occasione per rifarsi, al contrario di Ignazio La Russa, Marcello Taglialatela ed Edmondo Cirielli che hanno sempre mantenuto un atteggiamento di vicinanza e solidarietà. Tutto si risolse in una mia breve telefonata a Giorgia in cui le preannunciavo la volontà di autosospendermi da tutte le cariche di partito: grande respiro di sollievo e frettolosi ringraziamenti da parte sua. Poi il silenzio. È passato molto più di un anno da quel momento e non ho mai più avuto la fortuna di parlarle o di ricevere una telefonata da parte sua. Ancora più deludente fu l’atteggiamento di due persone con cui faccio politica dagli anni ’70 e che sono stati i miei più stretti collaboratori e alleati in tantissime occasioni. Sto parlando di Andrea Augello e di Fabio Rampelli: più giovani di me di due o tre anni, erano i principali dirigenti romani del Fronte della Gioventù quando io ero il Segretario dell’organizzazione missina negli anni ’80, poi siamo cresciuti insieme nel Msi, in Alleanza Nazionale e infine nel Pdl. Dopo essersi impegnati nella mia campagna elettorale del 2008, hanno espresso il loro appoggio politico alla mia Giunta comunale inserendo importanti assessori di loro emanazione. Augello sostenne Sveva Belviso prima come assessore ai servizi sociali e poi come vicesindaco, e Enrico Cavallari come assessore al personale. Rampelli, anche per conto del mondo umano che diede vita a Fratelli d’Italia, designò Fabrizio Ghera assessore ai lavori pubblici e alle periferie e Laura Marsilio assessore ai servizi scolastici. Tutte persone molto valide per nulla toccate dalle inchieste della magistratura. Mentre Augello mantenne la sua delegazione intatta fino alla fine, Rampelli entrò in conflitto con me quando, non per demeriti personali ma per problemi di spazi politici, fui costretto ad allontanare la Marsilio dal suo incarico.

Ma nonostante questo, la comunità militante del Colle Oppio, poi divenuta il motore di Fratelli d’Italia, continuò ad essere rappresentata in Giunta fino alla fine del mio mandato attraverso le deleghe molto “pesanti” dell’assessore Ghera. Non solo: anche nei vertici delle municipalizzate la presenza di queste due componenti risultò preponderante, suscitando le proteste delle altre correnti del Pdl. Alla presidenza di Ama, ad esempio, si sono succeduti prima l’augelliano Marco Clarke e poi il rampelliano Piergiorgio Benvenuti. Il presidente dell’Agenzia della Mobilità diventò Massimo Tabacchiera, mentre amministratore delegato di Risorse per Roma fu il dirigente di Fratelli d’Italia Domenico Kappler. Infine, durante la difficilissima campagna elettorale 2013 mi sono trovato a fianco sia Augello, come coordinatore del comitato elettorale, che Fratelli d’Italia, che presentò una lista collegata alla mia candidatura con il mio nome scritto cubitale sul simbolo. Furono atti di coraggio quelli di schierarsi in una battaglia con ogni probabilità già perduta, destinati però ad essere rimossi invece che rivendicati con orgoglio. Dopo la sconfitta e ancor più dopo gli avvisi di garanzia, ho scoperto che questi due vecchi amici non si ritenevano per nulla corresponsabili nella mia gestione. Augello con un tono più paternalistico e indulgente, Rampelli con la pretesa di aver rappresentato una vera e propria opposizione dopo l’allontanamento di Laura Marsilio. Un ben strano tipo di opposizione che contava nelle proprie fila un potente assessore e molte nomine nelle municipalizzate… Per completare il quadro bisogna dire qualcosa sugli ambienti provenienti da Forza Italia. A Roma operavano due filoni “forzisti” contrapposti tra loro: da un lato il gruppo di Antonio Tajani e dall’altro lato quello di Gianni Sammarco, cognato di Cesare Previti. Poco da dire su questi ultimi che, forse per l’amara esperienza delle vicende giudiziarie dello storico avvocato di Berlusconi, hanno sempre mantenuto un atteggiamento di amicizia e di solidarietà anche nei momenti più difficili. Antonio Tajani rappresentava invece quella parte di mondo forzista che, insieme a Fabrizio Cicchitto, ha sempre mal digerito l’egemonia politica della destra a Roma e quindi ha colto l’occasione di erigersi a severo fustigatore dei nostri errori. Peccato che arresti e avvisi di garanzia abbiano toccato anche uomini sponsorizzati da questi ambienti. Alleanza Nazionale, prima come partito e poi come ambiente di riferimento del Popolo della Libertà, ha espresso tutti i candidati vincenti nelle elezioni locali (Silvano Moffa alla provincia di Roma nel 1998, Francesco Storace alla Regione Lazio nel 2000 e il sottoscritto in Campidoglio nel 2008), ottenuto le migliori percentuali elettorali (il boom di Alleanza Nazionale fu nel 1996 con il 30,9%) e garantito il maggiore radicamento territoriale. Eppure, quando Gianfranco Fini impose nel 2010 Renata Polverini come candidata alla Regione Lazio, questo risentimento si trasformò in aperta rivolta: «basta “fascisti” ai vertici del centrodestra romano». Il segnale fu subito raccolto dalla stampa berlusconiana, che cominciò a pubblicare articoli e interviste di molti esponenti provenienti da Forza Italia impegnati a prendere le distanze da un Sindaco troppo di destra e quindi sospettato di essere ancora vicino a Gianfranco Fini. Anche in questo caso il dissenso non comportò affatto rinuncia a posti di potere ai vertici della mia amministrazione: gli assessori forzisti passarono da cinque a sei su dodici, con in più il Presidente del consiglio comunale Marco Pomarici e numerose presenze nei Cda delle municipalizzate. I più dolorosi abbandoni post-sconfitta rimangono comunque quelli del mio gruppo umano e politico. Sto parlando di persone che sono cresciute con me e grazie a me, dal ruolo di semplici iscritti ad Alleanza Nazionale fino ai vertici istituzionali, con cui ho condiviso esperienze comunitarie e che mi hanno sostenuto in momenti di svolta del nostro percorso politico, ma che, dopo il trauma della disfatta, hanno in qualche modo “calato la maschera”, facendomi scoprire una reciproca estraneità umana e politica.

Infine, in questa carrellata non possono mancare i cosiddetti “esponenti della società civile” che, dopo aver assunto importanti incarichi durante la mia amministrazione, si sono letteralmente “squagliati” dopo l’inizio dell’inchiesta di Mafia Capitale. Giancarlo Cremonesi, da me nominato Presidente di Acea ed eletto con il mio sostegno Presidente della Camera di Commercio, deve aver rotto il telefono dal 2 dicembre 2014, Massimo Tabacchiera, Presidente di Atac e poi dell’Agenzia della Mobilità, ha scoperto di dover gratitudine solo ad Andrea Augello, solo per citare i due casi più eclatanti. Devo dire che uno stile più sereno e leale lo hanno invece mantenuto persone distanti dal mio percorso politico, come Luigi Abete, Giovanni Malagò, Luca Cordero di Montezemolo e Aurelio Regina. Mi piace poco usare la categoria morale del “tradimento”, preferisco quella più psicologica della debolezza caratteriale e quella politica della mancanza di visione strategica. E in ogni caso mi sento in buona compagnia scorrendo i libri di storia: perché non c’è nessuna vicenda politica, antica e moderna, piccola o grande, che non sia stata segnata da separazioni dolorose o da veri e propri tradimenti. Quando mia madre o mia sorella cominciano a inveire contro questo o quel personaggio che mi ha voltato le spalle, cerco di tranquillizzarle evocando precedenti più o meno illustri: da Giulio Cesare con Bruto, a Benito Mussolini con Ciano, a Bettino Craxi con Claudio Martelli. Su Berlusconi poi si potrebbe scrivere un libro raccontando di tutte le sue creature che gli si sono rivoltate contro. Sull’altro piatto della bilancia ci sono i “giusti” e gli “eroi”, persone che dalle varie disgrazie che mi sono capitate hanno tratto motivazione per stringersi ancora più vicino e per affrontare con me battaglie che sembravano veramente disperate. Innanzitutto la mia famiglia, ben temprata da vicende recenti e lontane: mia madre Teresa e mia sorella Gabriella che non si erano certamente dimenticate di quello che avevano dovuto sopportare negli anni turbolenti della mia militanza giovanile, mia moglie Isabella che aveva appena dieci anni quando suo padre Pino Rauti fu arrestato ingiustamente per la strage di Piazza Fontana, mio figlio Manfredi e mio nipote Edoardo che hanno ostentato sorridente fermezza come veterani di antiche battaglie. Poi la cerchia degli amici che non si sono certo vergognati di accompagnarmi nei luoghi di ritrovo della capitale, sostenendo con compiaciuta indifferenza gli sguardi ostili e apprezzando le tante strette di mano che mi arrivavano da sconosciuti cittadini. Infine la pattuglia di maturi “ragazzi” che hanno dato vita con me ad una nuova esperienza politica, partendo dall’associazione Prima l’Italia, passando per Fratelli d’Italia, per arrivare al progetto di riunificazione della destra, incarnato dal nuovo movimento Azione Nazionale, che ha portato tante persone a riavvicinarsi proprio nel momento di maggiore “pericolo”. Infine non posso non menzionare la “pattuglia eroica” della mia segreteria, che, dopo essere riuscita ad operare in condizioni così difficili, è veramente pronta ad affrontare qualsiasi prova umana e organizzativa. Tra gli esponenti politici merita una particolare menzione Francesco Storace, che è sempre riuscito ad andare controcorrente: è rimasto all’opposizione per tutti i cinque anni in cui amministravo come Sindaco, per poi diventare un interlocutore politico e un direttore di giornale attento e garantista, negli anni dei miei guai. Poi ci sono tanti vecchi amici provenienti da Alleanza Nazionale con cui mi sono ritrovato nel momento della difficoltà per costruire l’ambizioso progetto di Azione Nazionale: testimonianza questa che l’antica militanza di destra, nonostante percorsi diversi e spesso conflittuali, non aveva perso il suo valore comunitario e politico. Come ho detto all’inizio, quando tutte le cose ti si rivoltano contro hai il privilegio di guardare in faccia le persone senza filtri e senza maschere di comodo, diventando tu stesso lo strumento di una vera e propria prova di carattere per tutti coloro che ti circondano. L’aspetto più duro è che di fronte a queste persone che ti guardano negli occhi non hai nessun alibi per mascherare i tuoi errori: con chi fa la carogna si può ostentare durezza tetragona, a chi ti è rimasto fedele sei solo costretto a chiedere scusa. Tornando all’analisi politica, il disastro umano che ho descritto in questo capitolo ha rischiato di provocare una vera Caporetto per il centrodestra romano e nazionale. Tutti coloro che, per rimozione o per vendetta, non solo hanno cercato di scaricare su di me ogni responsabilità ma hanno addirittura fatto a gara per presentare la nostra esperienza solo sul versante negativo, non si sono resi conto di aver prodotto un clamoroso autogol. L’amministrazione di centrodestra in Campidoglio è riuscita a fare anche molte cose buone e si è dovuta misurare non solo con i nostri errori ma soprattutto con la pesantezza dell’eredità ricevuta delle declamate giunte di centrosinistra di Rutelli e Veltroni. Per rendere evidente questa elementare verità storica siamo dovuti arrivare a fare paragoni con il disastroso fallimento dell’esperienza di Ignazio Marino, o con i voti che i cittadini davano alla qualità della vita a Roma prima, durante e dopo la nostra amministrazione.  Anche per cominciare a dimostrare che Mafia Capitale era tutt’altro che una storia di destra, abbiamo dovuto aspettare la seconda ondata degli arresti e l’oggettiva evoluzione delle carte processuali. Ma quasi nessuno degli esponenti di quello che era il mio schieramento politico ha avuto il coraggio e l’intelligenza di fare delle dichiarazioni controcorrente, come se il loro coinvolgimento nella nostra esperienza di governo – che in questo capitolo ho illustrato solo in minima parte – non fosse sotto gli occhi di tutti. Prendendo le distanze dal sottoscritto, enfatizzando gli errori commessi o addirittura sottoscrivendo le tesi peggiori della sinistra, non si sono resi conto di spianare la strada a una condanna integrale di tutto il centrodestra a Roma. Pochi sono stati gli esponenti di centrodestra che si sono mossi con coraggio, più in campo giornalistico, con Giuliano Ferrara, Alessandro Sallusti, Gian Marco Chiocci e Gaetano Pedullà, meno sul versante politico, dove si è distinto Maurizio Gasparri, che con la sua vis polemica contro la sinistra si è schierato più volte in mia difesa. La mancanza di un’analisi lucida e coraggiosa sui cinque anni della nostra amministrazione è una tara che peserà su tutti i percorsi futuri del centrodestra. Per i nostri avversari è come un gioco da ragazzi: dopo aver acquisito il punto fermo della condanna del mio operato, è facile delegittimare tutti gli esponenti del nostro schieramento dimostrando la loro piena corresponsabilità politica (quella giudiziaria è ovviamente tutt’altra cosa) con la Giunta Alemanno. Ma purtroppo il panico e il “si salvi chi può” sono cattivi consiglieri che tante volte nella storia della destra hanno rischiato di trasformare sconfitte momentanee in veri e propri tracolli epocali. Siamo sempre in tempo per rovesciare questo esito: lo dimostra il fatto che il centrodestra, nonostante tutte le sue divisioni e nonostante tre anni di massacro mediatico subito passivamente, si è presentato diviso ma competitivo alle elezioni comunali del 2016. Ulteriore dimostrazione che la demonizzazione della nostra amministrazione di centrodestra appartiene più alle ricostruzioni giornalistiche ed istituzionali che al sentimento vero del popolo romano.

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