Idee (di F. Cardini). Credere con Ezra Pound nell’Europa (e nella sua rinascita)

La Sagrada Familia di Barcellona
La Sagrada Familia di Barcellona

Molti mi chiedono che cosa sta accadendo all’Europa; e qualcuno anche che cos’è successo a me. Più o meno una trentina di anni fa un gruppetto di noi, fortunatamente ancor oggi nonostante tutto solidale, fondò un gruppo ambiziosamente intitolato “Identità Europea” simbolo del quale era il monogramma cristiano, a indicare che il nostro programma era quello di tracciare il disegno politico-culturale di una consapevolezza civica europea partendo dalle due solide basi della tradizione imperiale romana e di quella che dal IV secolo d.C. era la sua fede cristiana. Da anni ho abbandonato la presidenza di tale sodalizio, che prosegue la sua attività: e non ho mai formalmente accettato – pur con tutta la gratitudine per gli amici che me l’hanno affettuosamente, generosamente offerta – la sua presidenza onoraria. Io continuo ad esserne un semplice membro. Ma a distanza di anni sono in molti a chiedermi almeno qualche riga sintetica che esprima il mio pensiero attuale al riguardo: perché molte cose sono intanto accadute, quasi tutte negative, qualcuna terribile. Ecco qua.

La tradizione greca, fatta propria dal mondo romano e da esso passata sia a quello euro-occidentale medievale sia a quello bizantino, concepiva l’ecumène – vale a dire l’insieme delle terre asciutte, abitato dagli esseri umani – come distinto in tre grandi masse dette “continenti”. Si trattava di un sistema interpretativo che nasceva da un punto di osservazione situabile al centro del Mediterraneo, dove appunto le masse continentali sembravano convergere. Esse apparivano tutte come cinte da un immenso anello d’acque, l’ oceano – invalicabile e innavigabile, salvo lungo un breve tratto a occidente delle terre emerse –, e distinte tra loro grazie al “mare interno” (detto appunto “Mediterraneo”) e ai due grandi fiumi che in esso appunto si riversavano provenendo da nord e da sud, il Tanai (il Don) e il Nilo, che venivano proposti come linee di separazione, rispettivamente, tra Europa e Asia e tra Asia e Africa, mentre Europa e Africa erano appunto divise dal Mediterraneo stesso.

Questo modo di leggere l’assetto geografico del mondo ha prevalso ed è divenuto quello che tutti oggi usiamo: al punto da farcelo ritenere ovvio e naturale. Non è obiettivamente affatto così. Ad esempio le antiche civiltà indiana e cinese, dalle quali il nascente Islam nel VII secolo desunse le sue categorie interpretative dell’assetto del mondo, lo distinguevano secondo un criterio latitudinario per fasce climatiche: com’era più ovvio e funzionale per genti abituate alla navigazione del pacifico e dell’Oceano Indiano, dove le diversità di clima tra nord e sud sono molto importanti e dove le acque sono più pericolose che non nel dolce ancorché capriccioso mare nostrum.

La distinzione schematica dell’ecumène in continenti lasciava ovviamente aperti molti problemi, che vennero provvisoriamente risolti con il ricorso ad alcune rapsodiche notizie desunte da navigazioni o esplorazioni straordinarie, dal risultato d’incontri con genti asiatiche o africane portatrici di più o meno sicure informazioni derivanti dall’interno dei rispettivi continenti oppure da veri e propri miti geografici come quelli sugli strani popoli “mostruosi” che avrebbero abitato l’estremità dei continenti secondo le testimonianze e o le fantasie raccolte da eruditi quali Plinio il Vecchio o Solino. In tale mondo l’antichità grecoromana venne a contatto con quel che si diceva a proposito delle lunghe notti polari, del mare ghiacciato del nord, delle “meraviglie” dell’India.

Se i margini lontani dei continenti erano sconosciuti, era comunque comune convinzione che essi fossero delimitati dall’anello oceanico. Qualche difficoltà nasceva invece relativamente ai confini continentali aggettanti sul Mediterraneo: se ad esempio l’Asia cominciava ad est del Nilo (e quindi “asiatica” si definiva la parte orientale dell’Egitto), la discussione tra i greci – che è dubbio avvertissero l’Ellade come vera e propria parte dell’Europa o come una realtà a sé stante – verteva sull’europeicità o l’asiaticità delle montagne del Caucaso.

L’impero romano si caratterizzò per la sua circummediterraneità e il suo mediterraneocentrismo: tuttavia, dopo la divisione definitiva di esso in due partes che l’imperatore Teodosio dispose per farne rispettivi eredi i suoi due figli (a Oriente il maggiore, Arcadio; a Occidente il minore, Teodosio), la pars Occidentis, a ovest di una linea meridiana ideale che partendo più o meno dall’Odierna Serbia giungeva fino al centro del golfo della Sirte – una pars ben meno ricca, colta e densamente popolata dell’altra, ma non esposta in cambio al pericolo del tradizionale nemico dell’impero romano, quello persiano – si trovò ad essere per gran parte europea: di un’Europa però che giungeva sino al limes renodanubiano, oltre il quale si estendevano le foreste e le brughiere dov’erano insediati i barbari germani e dove stavano arrivando nuove ondate di barbari ben più temibili, le popolazioni uraloaltaiche della steppa asiatica (unni, più tardi àvari e infine magiari o ungari).

In tale contesto c’imbattiamo per la prima volta nel termine Europa usato in un sia pur incerto senso identitario in occasione di quel per la verità modesto scontro militare tra alcuni incursori arabo-berbero-ispanici che nel 732-733 avevano passato i Pirenei puntando su Tours (la città dove sorgeva il santuario di san Martino, protettore del popolo franco, le ricchezze del quale erano il loro obiettivo) e i guerrieri appunto franchi guidati da Carlo detto “Martello”, maestro di palazzo – cioè primo ministro – del sovrano merovingio. In tale occasione i franchi vennero definiti Europenses (“europei”) da un cronista, un monaco cristiano iberico che forse, con tale epiteto, intendeva distinguerli dagli assalitori che, avendo invaso la penisola iberica nel 711 provenienti dall’Africa, egli intendeva appunto come africani. Da notare tuttavia che, in questa non meno che in altre circostanze, gli incursori arabo-berberi che colpirono la Gallia e l’Italia con raids per via di terra e soprattutto di mare tra VIII e primi dell’XI secolo (da allora la spinta propulsiva della “prima ondata della conquista musulmana”, come alcuni amano definirla, si andò esaurendo), insediandosi oltre che nella penisola iberica anche in Sicilia, in alcune aree della costa provenzale, in parte dell’Italia meridionale peninsulare (si ricorda un emirato di Bari fra 840 e 871) e in alcune isole greche, non furono mai qualificati con epiteti che si rifacessero alla loro fede religiosa (“islamici”, “musulmani”, tanto meno “maomettani”), bensì semmai con parole che sottolineavano la loro origine etnogenealogica secondo la Bibbia (quindi discendenti da Abramo e dalle sue mogli: saraceni, “figli di Sara”, o con maggior precisione “agareni”, figli di Agar).

Tuttavia il “mito di Poitiers” (che sarebbe stato legittimato molto tardivamente, nel Settecento, allorché nella Decadenza e caduta dell’impero romano lo scrittore inglese Edward Gibbon affermò – con arbitraria fantasia – che se gli incursori musulmani del 732-733 non fossero stati fermati sarebbero dilagati per tutta l’Europa conquistandola) fu alimentato dalla dinastia carolingia che aveva soppiantato la merovingia allorché il nipote di Carlo Martello, chiamato a sua volta Carlo – e che noi conosciamo come Carlomagno – divenne re dei franchi e quindi per volontà del vescovo di Roma anche imperatore.

Si discute se Carlomagno sia stato il “fondatore dell’Europa” come realtà istituzionale e identitaria o se essa non sia nata invece dalla frammentazione, presentatasi nel corso del IX secolo, di quell’impero carolingio esteso dalla Francia alla Germania sudoccidentale all’Italia e che fece sì che, fin dall’inizio, il continente europeo si presentasse come caratterizzato sì dall’unità religiosa – la cattolica che faceva capo al vescovo di Roma, per quanto esistessero anche isole cristiane diverse come la celtica, l’ambrosiana o l’ortodossa – ma dalla diversità e dalla varietà etnolinguistica. Difatti, specie da quando a partire dal X-XI secolo gli europei cristiano-latini presero a espandersi a nord e ad est della linea danubianorenana, conquistando e convertendo i popoli ivi insediati, l’Europa si presentò come costituita sotto il profilo etnolinguistico di latini, di celti, di germani, di slavi, spingendosi appunto fino ai fiumi della grande pianura russa (dove tuttavia prevalse la colonizzazione culturale ortodosso-bizantina) e caratterizzandosi non come un’unità bensì – secondo al felice espressione coniata dal filosofo Massimo Cacciari – come un “arcipelago”, cioè come una catena montuosa in parte sommersa dal mare che ha sì profonde radici sottomarine nascoste (la tradizione grecoromana e la fede cristiana), ma che si presenta come distinta nelle cime montane affioranti, “isole” etnoculturali in parte memori delle loro radici comuni ma altresì coscienti della loro specifica identità che le accomuna a quelle vicine ma distingue ciascuna di esse rispetto alle altre.

Questa diversità si affermò nei secoli successivi, nonostante i potenti richiami unitari costituiti dall’impero romano-germanico e dal papato romano: e dal canto suo il mondo islamico, con il quale vi furono rapporti sia pacifici sia guerrieri (la crociate certo, ma anche continui rapporti socioeconomici, commerciali, diplomatici, nonché un fecondissimo scambio culturale), occupando Asia sudoccidentale, Africa settentrionale e piccole porzioni della stessa Europa (la Sicilia fino al secolo XI, la Spagna fino al XV, una parte della penisola balcanica e dell’arcipelago egeo fino ai primi del XX), servì in una qualche misura specie grazie all’esperienza dell’impero sultaniale ottomano (secoli XV-XIX) a creare quell’identità imperfetta ma comunemente e diffusamente sentita tra Europa e cristianesimo da una parte, Asia/Africa e Islam dall’altra. La nostra grande tradizione epica (dalla Chanson de Roland dei secoli XI-XII alla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso nel pieno Cinquecento), alimentata dalle epopee quali la battaglia di Lepanto del 1571 o la liberazione di Vienna dagli assedi ottomani del 1529 e del 1683, concorse al diffondersi dell’idea che Europa e Cristianità (almeno latino-germanica) coincidessero: tale era l’idea di grandi umanisti come Enea Silvio Picolomini poi papa Pio II nel Quattrocento e del poeta Novalis che in età napoleonica redasse il suo saggio Christenheit oder Europa. 

Tuttavia, il processo di secolarizzazione, figlio esso stesso della cultura europea, stava avanzando. Quando con le paci di Westfalia del 1648 si pose fine alla triste stagione delle “guerre di religione” cattoprotestanti che ben più delle limitate guerre contro il mondo musulmano avevano letteralmente devastato l’Europa (specie quella “dei trent’Anni”, 1618-1648), si avvertì che ormai il continente non poteva più identificarsi pienamente e totalmente nell’identità cristiana mai abbandonata sotto il profilo spirituale e culturale, bensì progressivamente emarginata sotto quello politico, giuridico, scientifico-tecnologico ed estetico. D’altronde, va detto che il progressivo attutirsi della tensione militare nei confronti dell’Islam ottomano e lo svanire dell’identificazione civico-esistenziale con la fede cristiana resero sempre più debole anche il senso di comune appartenenza all’Europa come “comunità di destino”. Il resto lo fecero i nazionalismi ottocenteschi, il sorgere della questione sociale e la frustrazione – accompagnata da una forte coscienza di decadimento – impostasi dopo la prima guerra mondiale quando si generalizzò quel sentimento di finis Europae ben presentato nel Der Untergang des Abendlandes (“il Tramonto dell’Occidente”) di Oswald Spengler. Ma gli eventi succeduti alla seconda guerra mondiale hanno fatto svanire anche il senso di identità tra Europa, Occidente e Modernità ch’era invece stato molto forte nell’Ottocento. Oggi, dinanzi a un Occidente-Modernità che con ben altra energia si è mostrato dagli Stati Uniti d’America all’Australia allo stesso Giappone uscito dalle riforme dell’epoca Mieji, gli europei si sentono defraudati anche della loro “primogenitura occidentale”. La mia generazione (quella nata più o meno a cavallo della seconda guerra mondiale) ha sperato a lungo nell’unità europea e a suo tempo si è entusiasmata dinanzi alla grande novità federale voluta e inaugurata da De Gasperi, Adenauer e Schuman. Siamo stati fieri di quello che ci sembrava, fra Anni Cinquanta e Anni Sessanta del secolo scorso, il decollo della nostra comune “patria europea”: e abbiamo atteso fiduciosi che l’Unione Europea, così nata sia pure con iniziali intenti economici, si trasformasse in unione istituzionale a carattere federativo o confederativo. La nascita di comuni esperienze scolastiche avrebbe presieduto – si sperava allora – alla costruzione di una nuova, solida identità europea sostenuta da un robusto senso civico di appartenenza all’ombra del quale sarebbe una cultura identitaria.

Nulla di ciò è avvenuto: la nostra è stata qualcosa di molto più fallimentare di una “falsa partenza”. La speranza nell’Europa ha partorito solo l’Eurolandia: che ha allontanato, non approssimato, il risultato ch’era la somma delle nostre speranze. E c’è di peggio. Vani, equivoci, addirittura pericolosi e svianti appaiono oggi i tardivi e strumentali tentativi di recuperare il tempo perduto proponendo una ridicola “identità” fondata sulla xenofobia e sull’islamofobia, sul disprezzo per i migranti e sulla paura di nuove “invasioni barbariche”. Per l’Europa siamo di nuovo all’Anno Zero, come all’indomani della seconda guerra mondiale. E alle nostre generazioni, che hanno fallito, non resta che sperare in quelle future, a patto che esse siano in grado di identificare con sicurezza i nostri errori e di correggerli con rigore e coerenza: obiettivi che, a tutt’oggi, appaiono drammaticamente remoti. Eppure da parte mia mi sento, dopo oltre mezzo secolo di profonda (e spero coerente) militanza europeista, di poter parafrasare un celebre verso di Ezra Pound pieno di disperata speranza: “Credo nell’Europa – e nella sua impossibile rinascita”.

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Franco Cardini

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