Anniversari. José Antonio e il sogno di “Patria pane e giustizia” per tutti gli spagnoli

primo de riveraLa storia non si fa con i “se”, con i “ma” e neppure con i “forse”. Però è indubbio che con Josè Antonio Primo de Rivera, nato a Madrid proprio centodieci anni fa (il 24 aprile 1903), il Novecento avrebbe visto una Spagna diversa. Con tutta probabilità meno chiusa, meno conservatrice, meno bigotta. Anzi, molti storici sono concordi nel ritenere che se il fondatore della Falange fosse sopravvissuto alla guerra civile, forse la sua strada si sarebbe ben presto divisa da quella del dittatore militare: uomini troppo diversi e soprattutto idee del tutto dissimili, quasi contrastanti.

Josè Antonio venne fucilato dai repubblicani spagnoli il 20 novembre del 1936. Le sue ultime parole furono: «Spero che il mio sangue sia l’ultimo sangue spagnolo versato per le discordie civili». E poi, rivolto al plotone d’esecuzione che stava per giustiziarlo: «Vi hanno detto che sono un avversario da uccidere, ma voi ignorate che il mio sogno era “Patria, pane e giustizia” per tutti gli spagnoli, specie per i miseri e diseredati. Dovete credermi, quando si sta per morire non si può mentire».

Se ne andava così, a 33 anni, il fondatore della Falange, l’uomo che aveva impresso una svolta fascista ai vari movimenti di destra che agitavano la Spagna nei primi decenni del Novecento e che sognava una “terza via” tra marxismo e capitalismo, tra reazione conservatrice e sovversione comunista. Il governo di sinistra del Fronte Popolare lo tolse di mezzo sperando di frenare la sollevazione militare che stava ribollendo in metà del Paese, soprattutto nelle regioni meridionali e nelle colonie nordafricane. Invece, paradossalmente, fece un favore al generalìsimo Francisco Franco, che in un colpo solo si ritrovò un martire da sfruttare per la propaganda e un pericoloso concorrente in meno sullo scacchiere nazionalista.

Nato a Madrid nel 1903, figlio del generale Miguel Primo de Rivera (che fu dittatore con il placet del re Alfonso XIII dal 1923 al 1930), Josè Antonio rimane orfano di madre all’età di cinque anni e viene cresciuto da una zia secondo i principi militari e cattolici. Studia giurisprudenza all’università di Madrid, svolge il servizio militare in un reparto di dragoni a Santiago e infine apre uno studio da avvocato. Insomma, malgrado l’ingombrante figura paterna, all’inizio conduce una vita tutto sommato normale. Ha la passione della politica e si avvicina all’Unione monarchica nazionale, con la quale si candida senza successo alle elezioni della “seconda repubblica” nel 1931. L’anno dopo finisce in carcere con l’accusa di aver tramato nel tentato golpe del generale Sanjurjo, ma viene rapidamente scagionato.

La duplice esperienza negativa lo allontana dagli ambienti monarchici e reazionari e lo fa avvicinare alle idee fasciste, che in quel periodo stanno affermandosi in varie nazioni d’Europa. Dapprima, insieme con l’aviatore Julio Ruiz de Alda, dà vita al Movimiento Español Sindicalista, che di lì a poco, il 20 ottobre del 1933, si trasforma nella Falange Española. I punti cardine del nuovo movimento politico sono l’unità della Spagna a fronte delle spinte dei nazionalismi locali, il superamento della lotta di classe, la giustizia sociale, un’alternativa economica non marxista allo strapotere del capitalismo e la creazione di un “uomo nuovo”, portatore di valori spirituali improntati alla tradizione e al cattolicesimo.

L’anno successivo la fusione della Falange con le Juntas de Ofensiva Nacional Sindicalista di Onesimo Redondo e Ramiro Ledesma Ramos dà al movimento di Josè Antonio un’ulteriore spinta in senso sociale e corporativo: una delle prime proposte, ad esempio, è la nazionalizzazione delle banche. Il nuovo partito adotta la bandiera rosso e nera degli anarchici, alla quale viene aggiunto il giogo con le frecce simbolo dei Re Cattolici. Nell’ottobre del ’34, quando il primo ministro conservatore Gil Robles reprime con durezza la rivolta dei minatori delle Asturie (tra i quali abbondano socialisti e anarchici), i falangisti si schierano con i lavoratori e non con il governo.

Per Josè Antonio Primo de Rivera sono mesi frenetici. Fonda giornali, viaggia per la Spagna partecipando a riunioni politiche, legge e studia.  Ma sono anche tempi violenti. Come in Italia una dozzina d’anni prima, rossi e neri se le danno di santa ragione e talvolta gli sconti di piazza sfociano in veri e propri atti terroristici, in cui spesso ci scappa il morto: dopo alcune vittime falangiste, anche il movimento di Josè Antonio passa al contrattacco e si rende protagonista di aggressioni e  omicidi. Alle elezioni del gennaio 1936 la Spagna si presenta divisa: la sinistra, dai comunisti marxisti filosovietici agli anarchici, fino ai repubblicani, si coagula nel Fronte Popolare; mentre destre e monarchici danno vita al Fronte Nazionale. La Falange Española de las JONS, fedele alla propria dottrina “terzaforzista”, va alle urne da sola e ottiene un misero 0,7 per cento dei voti.

La striminzita vittoria dei “popolari” dà vita a un governo di sinistra che si dimostra ben presto incapace di garantire la stabilità. Tra fughe in avanti all’insegna del socialismo e violenze di piazza, i primi a farne le spese sono proprio i falangisti: il partito viene messo fuori legge e Josè Antonio arrestato insieme con il fratello Miguel. Dal carcere di Alicante, dove i due sono reclusi, il leader falangista continua però a dirigere il partito, ormai clandestino, trama contro la repubblica e mantiene contatti con i militari contrari al governo di Miguel Azaña.

Le accuse contro i fratelli Primo de Rivera sono inconsistenti, in gran parte politiche; ma nel mese di luglio l’alzamiento di Franco e dei generali nazionalisti fa precipitare la situazione. Josè Antonio e il fratello diventano capri espiatori, vengono processati e condannati: il primo alla pena capitale, il secondo a 30 anni di carcere. La sentenza viene eseguita in tutta fretta il 20 novembre del ’36, mediante fucilazione. Ma la morte di Josè Antonio, lungi dallo spegnere la ribellione nazionalista, alimenta invece la sollevazione militare che sfocerà poi in vera guerra civile. E di fatto consegna la Falange nelle mani di Franco: la scomparsa di Primo de Rivera elimina l’unico personaggio in grado di far ombra ai militari e al tempo stesso fornisce al generalìsimo l’apparato ideologico, politico e culturale di cui i generali golpisti erano del tutto sprovvisti.

Non è un caso che nel 1938, al termine del conflitto fratricida, i falangisti dissidenti che  rifiutarono di aderire al Movimiento Unificado, il partito unico di Franco, vennero arrestati e processati. Il leader del partito, Manuel Hedilla, l’ex braccio destro di Josè Antonio che rifiutava di riconoscere l’autorità politica del generalìsimo, fu addirittura condannato a morte per tradimento. La pena capitale venne poi commutata in detenzione e Hedilla restò in carcere fino al 1947.

Comincia così la “santificazione” laica di Josè Antonio – e per certi versi anche il suo  tradimento politico – da parte di un regime che di falangista ha solo, o quasi, l’aspetto formale. Il 20 novembre del ’39, a guerra finita, i resti del capo della Falange vengono esumati da Alicante e portati a spalla dai giovani falangisti per 400 chilometri fino alla Valle de los Caìdos, vicino a Madrid, nel grande mausoleo voluto da Franco per ospitare le spoglie dei caduti di entrambe le fazioni. Lo stesso che nel ’75 ospiterà il corpo dell’ultimo dittatore spagnolo.

Giorgio Ballario

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