Libri. “Io fascista” di Giorgio Pisanò e la generazione che non si arrese

Giorgio Pisanò

La copertina di "Io fascista" di Pisanò
La copertina di “Io fascista” di Pisanò

L’angoscia degli sconfitti cos’è? È il coraggio che è rimasto in gola. È ciò che si doveva fare ma è diventato dolore poi. È un sentimento che narra un noi credevamo. Punto e basta. Gli altri hanno vinto. Ma non hanno sconfitto la dignità di chi non voleva cedere le armi. E Giorgio Pisanò non voleva cedere il suo mitra. Sono questi i motivi di alcune scene del 26 aprile 1945, sono scene nelle quali tutto è rabbia, tutto è audacia.  In “Io fascista”, racconto storico ripubblicato di recente, le pallottole fischiano in un vento d’acciaio. Le notti sono accese dai proiettili traccianti: i ragazzi delle Brigate nere corrono verso l’ultimo combattimento, verso un ridotto alpino valtellinese, in cui aspettare Mussolini, alla fine del mese di Aprile 1945.

Oggi, a scuola, i giovani dovrebbero leggere questa narrazione avventurosa. C’è qui il gusto della cronaca militare: paesaggi di battaglie, mitraglie arroventate, ufficiali affannati e partigiani celati, “che preferivano restare appollaiati sulle montagne della Valsassina.” Le scene di combattimento sembrano scritte con il realismo dei racconti militari ottocenteschi. Ed ecco il merito storico di questo libro: aver fotografato i fascisti, le loro illusioni, e nello stesso momento aver confermato che la guerra partigiana fu una rivoluzione passiva, non una guerra di popolo.

Il repubblichino Pisanò, il giornalista coraggioso, il direttore del Candido, l’editore intelligente, scrive il suo racconto nel 1964. Lo fa sapendo di dover aggiungere pagine di un’umanità mai raccontata dalla vulgata antifascista.  Per questo sono esemplari i brani dedicati all’ospedale di Grosio, dove vengono ricoverati i fascisti e i comunisti. I feriti si guardano in cagnesco, si insultano; poche ore prima si sono sparati addosso. Ma, in un attimo, l’ira tace: i fascisti e i comunisti si dividono le sigarette, “Avevamo portato un po’ di sigarette per i nostri feriti. Senza dire una parola Alberto divise il contenuto dei pacchetti in cinque parti eguali. A ognuno dei nostri toccò la sua. Poi ci avvicinammo ai letti dei due partigiani. Adesso non ci guardavano più con paura. Presero le sigarette, e uno dei due disse: Grazie.”

Ma gli italiani hanno scannato italiani in quei giorni del 1945. Il lettore tuttavia comprende che “i ragazzi di Salò” hanno delle ragioni storiche: non riescono a concepire altro Stato nel 1943; il loro sovrano scappa in una notte di settembre senza difendere la Capitale; un alleato diventa un nuovo nemico, il vecchio nemico diviene un alleato. Smarriti in Valtellina, i fascisti sono sgozzati come animali. Pertanto, il libro di Pisanò è rilevante; dopo la prima stesura è servito a Giampaolo Pansa per compiere una grande revisione della guerra partigiana.

Alle nuove generazioni è un dovere raccontare tutto: il sangue rosso e il sangue nero versati sul terreno della Storia.  È essenziale leggere frasi come queste, “La paura di morire come una bestia in gabbia, ucciso da gente che non sa nemmeno come ti chiami, e che ti ammazza senza sapere che cosa hai fatto, ma solo perché sono arrivati i giorni del furore.” Le vicende di Pisanò sono tragiche combinazioni avventurose; quindi, riletto senza ideologismi, “Io fascista” disegna corpi lanciati oltre le linee nemiche, Guardie del Duce diciottenni, idealisti della Decima affamati di pane e Risorgimento, cioè ragazzi senza barba, non fucilatori! Pagina dopo pagina, allora giungono le voci dei fratelli dimenticati, i perduti nella bufera. E non sono mai troppe le parole da dedicare ai repubblichini della Valtellina adesso che leggiamo,

“Vorrei non doverlo raccontare: i partigiani li mitragliarono alle gambe e, mentre quegli sventurati urlavano implorando il colpo di grazia, li irrorarono con decine di litri di benzina. Li bruciarono vivi”.

È un’Italia oggi chiusa nei libri, un paese di camerati e compagni o di Tribunali del popolo senza giustizia, la giustizia di certi partigiani rossi che, solo pochi giorni prima della primavera 1945, sono stati fascisti. Italia, non finirai mai di essere Italia!, e nel capitolo ‘La rivolta’, il carcere diventa la radiografia di una società: i rossi e i neri sono picchiati o picchiatelli, la galera di San Vittore sembra uno stadio,

“Fu una scazzottata entusiasmante, memorabile. Non ho mai visto in nessun film niente di simile. Migliaia di detenuti impegnati in una lotta furibonda: celle devastate, porte scardinate, urla, bestemmie, insulti. E nessuno sbagliava bersaglio. I partigiani infatti erano facilmente riconoscibili. Molti di loro portavano la barba. Credo che la lotta sia durata una ventina di minuti. Per un vero miracolo non ci scappò il morto”.

In “Io fascista” ci sono tante verità. L’umanità che resiste. Gli opportunisti che vincono alla fine. Il confronto con i propri ideali, senza vergognarsi dinanzi ai tribunali giacobini del Novecento. Di sicuro, è possibile riscoprire le vicende di un’epoca tragica, di un tempo che non ha mai terminato di parlarci. E la voce di Pisanò è quella di una generazione che è ritornata a vivere, quindi mai battuta, anche dopo la lunga prigionia,

“Avevo ventidue anni e, davanti a me, tutta una vita da conquistare. No, non mi sarei arreso. Caricai lo zaino sulle spalle e mi avviai verso casa”.

*“Io fascista” di Giorgio Pisanò, il Saggiatore, 2015, euro 19

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Renato de Robertis

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