Quirinale. Pier Luigi Bersani conosce un vero “25 luglio” versione democrat

bersaniPovero Bersani. Non più di due mesi fa era il vincitore annunciato delle elezioni politiche: restava solo da sapere se avrebbe avuto bisogno o meno di Monti per dar vita al suo governo. Oggi, dopo il primo scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica, Bersani è un uomo politicamente morto, vittima degli errori suoi e del gruppo dirigente del Pd. Per cinquanta giorni, dopo che l’esito del voto aveva consegnato all’Italia un Parlamento bloccato, l’uomo di Bettola ha traccheggiato, corteggiando il Movimento 5 stelle e ripetendo fino alla nausea la cantilena sul “governo di cambiamento”. Ha escluso qualsiasi intesa con Berlusconi e il centrodestra, considerati più o meno alla stregua di appestati. Ha lasciato che Crimi e soprattutto l’impietosa e spietata Lombardi lo umiliassero pubblicamente, in diretta streaming. Si è fatto attribuire da Napolitano una sorta di incarico, che si è presto rivelato “non risolutivo” e ha lasciato il Paese nello stallo totale. Tutto questo mentre la situazione economica e sociale continuava a peggiorare drammaticamente e mentre i suoi avversari interni (da Renzi in giù) cominciavano a spazientirsi.

Poi, di colpo, Bersani si è accorto che la matematica esiste e, per giunta, non è un’opinione. Che, se voleva avere qualche speranza di formare un governo ed evitare nuove elezioni, doveva bussare proprio a Berlusconi. Che, se voleva evitare un clima da guerra civile, aveva bisogno di ricercare un’intesa sull’elezione del Capo dello Stato. La tragedia è che ha cominciato a fare la cosa giusta nel momento sbagliato, dopo aver sperperato il proprio capitale di leadership per quasi due mesi, dopo che Renzi ha rotto la tregua e dato il via alla controffensiva, addirittura dopo che Grillo ha cominciato a mettere in difficoltà il Pd proponendo il nome di Rodotà.

Come ha twittato Marco Taradash, «Bersani che quasi cadde per non fare un ragionevole accordo con Berlusconi cadde per aver fatto un irragionevole accordo con Berlusconi». In questo psicodramma collettivo, colpisce il tradimento dei fedelissimi: Alessandra Moretti, che è innegabilmente un bel pezzo di figliola ma che sarebbe rimasta sconosciuta se Bersani non l’avesse scelta come portavoce prima durante le primarie e poi durante la campagna elettorale, ha contribuito all’affossamento di Marini e, di conseguenza, del suo segretario. Una miracolata scopertasi ribelle, in questo strano 25 luglio del Partito Democratico.

Ma non c’è da commuoversi molto per Bersani e i suoi: raccolgono semplicemente ciò che hanno seminato negli ultimi 20 anni. Per tutto questo tempo la sinistra italiana ha strizzato l’occhio a un giustizialismo dai tratti bestiali; ha lisciato il pelo a un antiberlusconismo folle e demenziale, rinunciando a essere classe dirigente per assecondare gli istinti più beceri della cosiddetta società civile, di un “popolo di sinistra” imbarbarito dalla frustrazione. Gli eredi del Partito Comunista, cresciuti alla scuola delle Frattocchie, hanno di colpo rimosso il principio del “primato della politica”, anzi hanno dimenticato persino cosa sia, la politica: conflitto, certo, ma anche accordo e negoziazione. Hanno abbandonato tutto questo, fomentando un clima di guerra civile permanente e scodinzolando, con sconcertante subalternità, di fronte alla linea dettata dal gruppo L’Espresso e dagli arrabbiati con la bava alla bocca. Hanno sostituito l’avversario con il Nemico assoluto, anzi metafisico.

Ora, magari, Bersani si stupirà che elettori e militanti abbiano rigettato l’accordo con Berlusconi e reclamino l’elezione di Rodotà. Che la maggior parte del gruppo parlamentare non lo abbia seguito e voglia prestare fede a quello che Bersani diceva fino alla settimana scorsa: mai accordi con il Caimano. Che i sinistrorsi gli vomitino addosso fango e insulti, perché una foto lo ritrae mentre mette una mano sulla spalla di Alfano. Forse aveva ragione Nanni Moretti che in una riedizione del motto “con questi dirigenti non vinceremo mai” aggiungerebbe: tutta colpa della sindrome della non-vittoria.

Marco Mancini

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